COSENZA – La più estesa indagine mai compiuta sulla ‘ndrangheta del Cosentino che ha evidenziato come le cosche, dopo anni di rivalità e di scontri, si fossero confederate dandosi una struttura di vertice unitaria, riconducibile ai due principali gruppi, il cosiddetto clan degli italiani, nelle sue varie componenti, e quello degli zingari, anch’esso con varie articolazioni. A portare alla luce la nuova struttura criminale è stata l’inchiesta coordinata dalla Dda di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, con l’azione condotta all’alba da Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza. Un blitz che ha portato all’arresto di 189 persone – 139 in carcere e 50 ai domiciliari – a 12 obblighi di dimora e ad una misura interdittiva dello svolgimento di attività professionale. Provvedimenti che hanno colpito amministratori locali, professionisti, imprenditori ed esponenti della criminalità organizzata cosentina. L’indagine ha permesso di fare luce su oltre 20 anni di attività illegali, perpetrate nel capoluogo bruzio da diverse organizzazioni criminali, frutto di un lavoro certosino durato anni da parte dei carabinieri del Comando provinciale di Cosenza, delle Squadre mobili di Cosenza e Catanzaro, del Servizio centrale operativo di Roma, dei finanzieri del Comando provinciale di Cosenza, del Nucleo di polizia valutaria di Reggio Calabria, del Gico del Comando provinciale di Catanzaro e dello Scico di Roma. Le cosche si erano confederate perché per loro era più remunerativo. Infatti, appianato ogni contrasto, le ‘ndrine si spartivano i guadagni delle attività illecite, frutto del traffico e dello spaccio di droga, delle estorsioni, dell’usura e del gaming, settore, questo, che fa sempre più gola alla criminalità in quanto ritenuto estremamente redditizio.
Così facendo, la criminalità organizzata riusciva a tenere sotto scacco ogni attività economica cittadina e dell’hinterland, grazie anche a imprenditori che da vittime diventavano carnefici, come quello che in cinque anni ha visto moltiplicare il proprio guadagno fino ad arrivare a 27 milioni grazie all’accordo con le cosche. Ed una conferma di quanto fossero redditizie le attività illecite portate avanti è venuta dal sequestro preventivo d’urgenza disposto dal pm, che ha riguardato beni per un valore stimato in oltre 72 milioni di euro, tra i quali anche uno yacht e un aeromobile ultraleggero. Ma non solo droga e reati predatori. Secondo i magistrati della Dda di Catanzaro e gli investigatori di Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza, i vertici delle cosche avrebbero intessuto anche rapporti con amministratori locali. E’ il caso del sindaco di Rende, Marcello Manna, noto avvocato penalista e presidente dell’Anci della Calabria (anche il suo predecessore, Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo, era stato arrestato nel 2019 nell’ambito dell’operazione Rinascita Scott), finito ai domiciliari con l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso.
Insieme a Manna – espressione di una lista civica e vincitore alle comunali nel 2019 al ballottaggio, sostenuto da una coalizione eterogenea composta da forze di vario orientamento politico – ai domiciliari sono stati posti anche l’assessore ai Lavori pubblici di Rende, Pino Munno, e quello alla manutenzione ed al decoro urbano di Cosenza, Francesco De Cicco. Nei confronti del primo viene ipotizzato il reato di scambio elettorale politico-mafioso, mentre per il secondo l’ipotesi dell’accusa è associazione per delinquere semplice, aggravata dal metodo mafioso, e intestazione fittizia.
Munno e Manna, scrive il gip nell’ordinanza, “in cambio di un cospicuo pacchetto di voti, recuperato dal gruppo ‘ndranghetista, relativamente ai rispettivi ruoli pubblici, avrebbero favorito la sotto-articolazione ‘Gruppo D’Ambrosio’, mediante l’aggiudicazione di gare (l’affare del ‘palazzetto’) e assicurando un perpetuo trattamento di favore comprensivo di lavori di urbanistica e di favoritismi lavorativi, nonché una serie di utilità (date/promesse) che determinavano i D’Ambrosio a rinunciare ai classici 100 euro per voto”.
De Cicco è accusato di associazione per delinquere semplice aggravata dal metodo mafioso e intestazione fittizia. “De Cicco – scrive il gip -, seppure sostanzialmente incensurato, ha dimostrato una significativa proclività a delinquere, nonché collegamenti con la criminalità organizzata (di lui ne parlano alcuni collaboratori di giustizia) mettendosi a disposizione anche di membri apicali (quali Piromallo). Emerge, quindi, una personalità incline alla commissione di delitti gravi tutelabile esclusivamente con una misura custodiale, in particolare quella degli arresti domiciliari, idonea a interrompere i predetti collegamenti”.
Il collaboratore di giustizia Silvio Gioia afferma che Daniele Chiaradia (elemento di spicco del gruppo Chiaradia-Orlando, ndr) e Mario Piromallo (appartenete al clan Patitucci-Porcaro, ndr) avevano un rapporto diretto e che “Chiaradia e Mario Gervasi gestivano una società di Gaming (Gechi Games) anche a Malta, e che l’avvio era stato possibile grazie ai finanziamenti elargiti da Piromallo, il quale li affiancava nella gestione servendosi dello schermo societario per riciclare il denaro di provenienza illecita”.
In questo contesto si inserisce l’assessore alla manutenzione e decoro urbano di Cosenza il quale – sostiene il collaboratore – “era legato sia al Chiaradia che al Gervasi, i quali gli riconoscevano il 45% degli utili, e che avendo il vizio del gioco aveva contratto debiti pari a euro 200mila euro con entrambi e indirettamente col Piromallo”.