Area Urbana
Storia di don Santo, il prete viandante di Donnici: a piedi dall’Ucraina alla Polonia
Il sacerdote percorrerà cinquecento chilometri da Leopoli fino al Santuario della Madonna di Czestochowa. “Il cammino è il segno della vita”
 
																								
												
												
											COSENZA – La Chiesa di San Michele Arcangelo di Donnici non puoi non vederla. Se arrivi da Cosenza, ti si para davanti: quasi pretende una sosta. E tu ti fermi, assecondi quella richiesta. Il grande portone di legno antico, arso dal caldo di luglio, t’invita a entrare. Nella penombra, s’intravede la statua del Santo patrono di questa popolosa frazione. Poco distante, l’icona di Santa Maria che dà il nome alla parrocchia. Le uniche voci che s’odono portano dritto alla piccola sacrestia. Un’anziana signora, quasi mortificata, sembra giustificarsi: “Soltanto un minuto, giusto il tempo di ricevere l’assoluzione e tolgo il disturbo”. La lista dei peccati dev’essere breve: la gentile vecchina sguscia veloce lungo il silente corridoio e interrompe lesta la casuale contemplazione dell’Arcangelo guerriero in cui la cronista s’era persa. “Benvenuta, ti stavo aspettando”.
 
Il fisico appare esile, le spalle un po’ curve. E dici dentro di te: ma questo dove pensa d’andare? Poi succede che sorride, gli occhi s’illuminano e quasi ti vergogni: quest’uomo è forte e arriverà lontano. Don Santo Borrelli ha poco più di mezzo secolo di vita. Sacerdote da 32 anni, gli ultimi cinque alla guida della parrocchia di Donnici. Al collo un crocifisso di legno, addosso una maglietta blu che, all’altezza del cuore, è contrassegnata da uno stemma: “L’ho disegnato io e ora ti spiego cosa significa. Questa che vedi in alto è la freccia di Santiago, che indica il cammino. La conchiglia è simbolo di pellegrinaggio. In basso il filo spinato di Auschwitz, la parola pace scritta in lingue diverse e, infine, l’immagine della Madonna di Czestochowa alla quale il cammino è consacrato”. Lo senti parlare e capisci che, senza una prima bruciante domanda, sarebbe difficile andare avanti nella conversazione. E allora, di getto: perché lo fa? E lui, con disarmante tranquillità: “Il cammino è il segno della vita”. Forse sarebbe stato meglio mordersi la lingua, ma poi il racconto continua, capisci che, nell’incredulità, sei in buona compagnia e quel senso di velata stupidità che t’aveva assalito, come d’incanto svanisce: “Una fresca mattina d’agosto di un anno fa, quando ancora tutti dormivano, mi sono chiuso alle spalle il portone della chiesa e mi sono messo in cammino fino a San Pietro.
Quando dopo un mese, il mio viaggio è finalmente finito, Papa Francesco da lontano si è rivolto a me, chiedendomi sorpreso e incuriosito perché lo avessi fatto”. Il Santo Padre e una cronista di periferia accomunati dalla stessa semplice domanda! Quindici volte il cammino di Santiago di Compostela, il monte Athos in Grecia, la Terra Santa, ospite di musulmani praticanti per nulla ostili verso quella croce appesa al collo: “L’esperienza del cammino – confida don Santo – non si può spiegare, sembra impossibile anche soltanto da immaginare.
 
Nel cammino è racchiuso tutto ciò che viviamo ogni giorno nella nostra vita”. Ci aiuti a capire meglio. “Nel cammino ci sono la solitudine, la stanchezza, il bisogno dell’altro, la voglia di fermarsi per gustare la sosta o perché hai come la sensazione di non potercela più fare”. E qual è la sua reazione quando avverte che le forze iniziano a mancare? “Continuo a camminare. L’anno scorso per esempio, avevo le piaghe sotto ai piedi e stavo davvero per mollare. Poi succede che lungo la strada, quando proprio non te lo aspetti, compare una fontanella. Allora ti fermi, ti disseti, trovi il modo di lenire le tue ferite, ti senti rinfrancato e capisci che hai fatto bene a non fermarti”. Un insegnamento prezioso per la vita, sempre capace di sorprenderci, anche quando tutto appare irrimediabilmente perduto. “Chi si mette in cammino si ritrova” e se lo dice lui c’è da crederci, anche se, con un pizzico di rammarico, aggiunge: “Man mano che invecchio, mi stanco sempre più facilmente. All’inizio riuscivo a camminare anche per cinquanta chilometri al giorno, adesso non supero i trenta. A marzo mi sono ammalato di covid in forma grave e sono stato curato con la terapia monoclonale”.
Non si sente debilitato nel fisico? Ha consultato il medico prima di partire? Sorride: “Sì, certo l’ho fatto. Il dottore mi ha prescritto una cura che vedrò di rispettare”. Ah, ecco! Ma cosa si porta dietro un viandante che ha in mente di percorrere a piedi più di cinquecento chilometri? “Il mio bagaglio – si schernisce don Santo – è pronto da un pezzo. E’ un vecchio zaino consumato dal tempo sul quale, ogni volta, aggiungo i simboli del nuovo cammino”. E’ già pronto, va bene. Ma dentro che cosa c’ha messo? “Lo zaino del pellegrino – e anche questa volta capisci che dietro le parole del sacerdote si palesa una preziosa metafora che calza a pennello anche per la vita – è fatto di essenziale e tutto ciò che è superfluo non può trovarvi spazio. C’ho messo un asciugamano, un cambio di vestiti, un cappello, le medicine, una borraccia per l’acqua e un piccolo Vangelo che possiedo da almeno vent’anni”.
E il telefono? “Naturalmente, anche se durante il pellegrinaggio lo tengo spento perché essere sempre connessi è in contrasto con la natura del mio viaggio. Questo, mi rendo conto, è fonte di preoccupazione per le persone che non riescono a sapere dove mi trovo e se sono in salute”. Sette chili di peso caricati sulle spalle da mattina a sera. “Quando, al termine di ogni tappa, depongo a terra lo zaino, è davvero un sollievo anche se, dopo un p0′, è come se mi mancasse un pezzo importante di me”. E nella vita cos’è davvero essenziale? “Sentirsi amati – risponde don Santo – costruire relazioni con gli altri che però non siano costringenti. Il cammino educa alla solitudine e la solitudine è lo spazio più bello per le relazioni autentiche, perché se non sei capace di stare da solo non puoi stare neanche con gli altri”. In realtà, almeno questa volta, don Santo non sarà da solo nel viaggio che ha deciso di intraprendere. Al suo fianco camminerà Vincenzo, conosciuto in occasione dell’ultimo pellegrinaggio a piedi. Andranno in aereo il 28 luglio fino a Cracovia dove saranno ospiti di un convento di suore canossiane.
Da qui, in treno raggiungeranno il confine tra Polonia e Ucraina. Ad attenderli ci sarà Don Mario, prete paolino di origini polacche che in auto condurrà don Santo e Vincenzo fino a Leopoli. Al vescovo del luogo verrà consegnata una parte delle donazioni in denaro raccolte dai parrocchiani di Donnici. Il 31 luglio, dopo aver visitato un campo profughi, don Santo si metterà in cammino. Ai bisognosi che incontrerà lungo la strada andrà il resto delle offerte messe insieme prima della partenza, così, spontaneamente, senza che ci sia stato bisogno di chiedere nulla. Cento chilometri in terra Ucraina, con don Mario pronto a intervenire in caso di pericolo. Cinquecento chilometri sul suolo polacco, passando per il campo di concentramento di Auschwitz. Infine, la meta: Il Santuario della Madonna di Czestochowa. Don Santo, ma è davvero convinto di voler partire? “Tranquilla, giovane e nuova amica, se non ce la faccio mi fermo ma è mio dovere andare lì dove la gente soffre”. E m’accorgo che il sorriso di prima s’è trasformato in pianto.
 
                         
                                 
                                 
                                 
                                 
                                 
                                 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
											 
		
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