Area Urbana
Teatro dell’Acquario, dalla tenda di Giangurgolo alla metafora del calabrone
Quarant’anni di successi tra salite e ricadute, fino al triste epilogo: la morte di Antonello Antonante e lo sfratto che inesorabile s’avvicina
COSENZA – Una spiaggia. Le luci di un circo in lontananza. Antonello ripensa a quella volta in cui scappò di casa per unirsi a una compagnia circense. “Aveva quattordici anni e lasciò mia madre nella disperazione più profonda”. Carlo piange da un mese quel fratello maggiore che l’ha cresciuto. A casa Antonello alla fine ci tornò. Ma il circo, quello no, non smise mai di amarlo. Fu per questo che, quando sulla spiaggia di San Lucido (ma forse era Torremezzo!) vide quel tendone illuminato, non resistette alla tentazione: si avvicinò ed entrò. “Un giorno vorrei comprarne uno uguale”, disse Antonello al proprietario. Lui rispose: “Compra il mio allora, me ne voglio giusto liberare”. Così andò. E la storia ebbe inizio. Era il 1977. Un anno prima Antonello Antonante, Dora Ricca – che poi sarebbe diventata sua moglie – Antonella Carbone, Nello e Massimo Costabile avevano dato vita al Centro R.A.T. (ricerche audiovisive e teatrali). Una stanza lunga e stretta al civico 82 di corso Telesio, dove il gruppo organizzava proiezioni di film e incontri-dibattiti. Ogni tanto, si faceva vedere pure Marcello Walter Bruno, la cui morte sarebbe arrivata pochi giorni dopo quella di Antonello. Lo spazio angusto di quella prima sede faticava a contenere la traboccante creatività del gruppo. Il colpo di genio di Antonante fu dunque provvidenziale. Senza che ci fosse bisogno di chiedere permesso, la “Tenda di Giangurgolo” fu messa in piedi dall’oggi al domani su uno sterrato dalle parti di via Caloprese. Poi spostata nella zona dello stadio e, infine, montata su via Panebianco. Nell’inverno del 1979 una tempesta d’acqua e vento la fece volteggiare in aria, scaraventandola a terra ridotta ormai a un cencio inutilizzabile. Quietatasi la burrasca, rimaneva il ricordo delle stagioni teatrali andate in scena sotto a quel tendone da circo e delle tante compagnie venute da fuori a esibirsi. Ma il ricordo, quello da solo, non poteva bastare.
Via Galluppi, Don Pingitore e la nascita dell’Acquario
Un giorno, camminando per le strade di Cosenza, Antonello si fermò davanti a un capannone: d’improvviso gli venne in mente che, da ragazzino, era proprio lì che, di tanto in tanto, andava a tirare di scherma.
“Questo posto – ricorda suo fratello Carlo – nel tempo è stato tante cose diverse. Una palestra, un’officina per barche, una tipografia e un deposito farmaceutico”. Antonello in cuor suo aveva già deciso: lui e gli altri sarebbero ripartiti da questo stabile malmesso di via Galluppi. Rimaneva soltanto un “piccolo” dettaglio: incontrare il proprietario e convincerlo a chiudere l’accordo. Don Mario Pingitore, che nel frattempo aveva acquistato l’immobile da un imprenditore nautico di Cetraro, prese subito Antonello in simpatia. “Nonostante tutti gli sconsigliassero di affittare i locali a un gruppo di scapestrati, lui alla fine accettò.” Il Centro R.A.T aveva così trovato casa. In cambio, s’impegnava a pagare ogni sei mesi un canone di locazione pari a nove milioni di lire. Considerato che Giangurgolo se n’era volato via con tutta la sua tenda, bisognava mettersi alla ricerca di un nome nuovo. “Venne convocata una riunione – racconta Carlo – ma le versioni su questo punto sono differenti, perché qualcuno dice che il gruppo si affidò al sorteggio, qualcun altro sostiene invece che votarono per alzata di mano”. Destino o no, sappiamo come finirono le cose.
“L’acquario – spiega Carlo – simboleggia un microcosmo. Tanti pesci colorati, ognuno diverso dall’altro ma tutti parte dello stesso, unico ambiente”. I componenti della cooperativa che avevano proposto la denominazione di Teatro della Ginestra se ne fecero una ragione. Il sipario s’aprì il sette marzo del 1981. L’otto marzo si replicò. Per il gran debutto, il Teatro dell’Acquario ospitò la compagnia Libera Scena Ensemble di Napoli. Sulle tavole immacolate del palcoscenico fu rappresentato il “Woyzeck” di Georg Buchner, regia di Gennaro Vitiello. I cosentini si misero in fila. Incuriosito e senz’altro trascinato dalla passione viscerale di suo fratello, anche Carlo cominciò a bazzicare nel teatro di via Galluppi. Armato di “cato e colla”, capitava d’incontrarlo per le vie della città. La stagione teatrale dell’84 proponeva “Donne e storie di ordinaria follia” della compagnia Gran Serraglio di Torino. Lo spettacolo, che prevedeva alcuni nudi in scena, era vietato ai minori di diciotto anni. “Attaccare i manifesti e poi metterci sopra la famosa striscetta era difficile, ma eravamo obbligati, perché senza avviso rischiavamo grosso. Allora, sistemavo il rettangolo di carta intorno alla scopa e, con un veloce colpo di polso, il gioco era fatto”.
Il sogno s’infrange: arrivano i debiti e le lettere di sfratto
Quello fu anche l’anno in cui Antonello Antonante e gli altri componenti della cooperativa dovettero fare i conti con la prima seria crisi economica del teatro. “Il riconoscimento ministeriale ottenuto nel 1976 dava diritto alle sovvenzioni statali. I finanziamenti arrivavano con ritardo, ma comunque arrivavano. Quei soldi, però, da soli non erano sufficienti a fronteggiare tutte le spese e purtroppo in quei tempi, a livello di istituzioni locali, intorno al Teatro dell’Acquario c’era il deserto più assoluto”. Così un bel giorno, al posto delle avveniristiche locandine con le quali si annunciavano gli spettacoli in calendario, comparve inaspettato l’annuncio: “Signore e Signori si chiude”. Per fortuna, Regione e Comune non rimasero indifferenti al grido d’aiuto e la chiusura fu scongiurata. Le difficoltà finanziarie, tuttavia, continuarono. E s’aggravarono. La vita del Teatro dell’Acquario era costantemente appesa a un filo. Antonello, in qualità di rappresentante legale della cooperativa, somigliava tanto a un equilibrista circense, addestrato a stare in bilico sul vuoto.
“Nel 2013 – rammenta Carlo – il Centro R.A.T. si vide recapitare una lettera di sfratto da parte degli eredi di Don Mario Pingitore. Il dissesto finanziario non aveva ancora fatto il suo ingresso a Palazzo dei Bruzi e il sindaco Mario Occhiuto fu in condizione di sostenerci”. Il Teatro dell’Acquario, ancora una volta, era salvo. “Resistendo resistendo, con un colpo di teatro dopo l’altro, non siamo mai usciti di scena. Abbiamo fatto come i calabroni che sono pesanti e hanno ali troppo piccole per volare, però non lo sanno e volano lo stesso. Fuor di metafora vuol dire che gli ostacoli non sono mai mancati, ma l’amore per il teatro e la gioia per il nostro lavoro hanno sempre prevalso sulle difficoltà incontrate lungo il cammino”. Fino a quando la situazione non si è complicata. “Nel 2020 abbiamo ricevuto la seconda lettera di sfratto. La proprietà ad oggi vanta un credito di quarantamila euro e, di fronte alla nostra attuale mancanza di liquidità, si è mostrata intransigente. Allo stop forzato imposto dalla pandemia, si sono aggiunti i ritardi della burocrazia. Gli ultimi finanziamenti erogati dalla Regione si riferiscono alla produzione teatrale del 2019, mentre dal Ministero aspettiamo ancora il saldo relativo al 2021. Abbiamo provato a dire che, appena i contributi che aspettiamo arriveranno, salderemo l’intero debito accumulato. Purtroppo, non è servito a niente. Gli eredi di Don Mario Pingitore sono inamovibili. L’ufficiale giudiziario – continua Carlo – ha fissato al 15 settembre la data entro cui dovremo restituire le chiavi del teatro. La Regione si sta interessando alla vicenda. Ci hanno chiesto d’integrare alcuni documenti, ma con la morte di mio fratello è stato davvero difficile riuscire a essere tempestivi”.
Il Bistrot e quella poltrona rimasta vuota
Antonello ha varcato la porta dell’Acquario l’ultima volta lo scorso 17 giugno, per assistere al saggio finale del corso di musica. Carlo ha come la sensazione di rivederlo: “Se n’è rimasto seduto tutto il tempo in prima fila”. Antonello, malgrado l’Alzheimer ne avesse in parte minato la lucidità, era consapevole delle nubi tornate ad addensarsi sul teatro di via Galluppi. Tuttavia, caparbio e propositivo com’era, confidava che il cielo si sarebbe presto rischiarato. Invece no. “Sempre che non accada il miracolo e qualcuno ci presti quarantamila euro, saremo costretti ad andarcene. Il 22 agosto inizieremo a smontare il palcoscenico e la gradinata, poi man mano porteremo via tutto il resto”. Nella sala del suggestivo Bistrot dell’Acquario, ogni singolo oggetto emana struggente malinconia: la coppa del premio Ubu, il più importante riconoscimento del teatro italiano che il centro R.A.T. s’aggiudicò nel 2019.
La Lettera 32 che Antonello un giorno di tanti anni fa sottrasse a suo padre: “La mattina sprofondava in una delle poltrone colorate del Bistrot e, sorseggiando la sua amata gassosa al caffè, la cosa più azzardava che beveva – sorride Carlo – iniziava a battere veloce sui tasti della macchina da scrivere, fino a quando quello che leggeva non lo convinceva del tutto”. Curiosando tra i cimeli dell’Acquario sparsi qua e là, compare imponente nella sua semplicità un messaggio autografo del maestro Eduardo De Filippo, datato 24 ottobre 1984:
“Caro Antonello due righe in fretta. Non sto gran che bene, ma non voglio lasciarla senza risposta troppo a lungo. Il vostro progetto, con qualche taglio, mi andrebbe bene. Oltretutto, è da tanto che manco in Calabria e sarei contento di ritrovarvi tutti. Però non posso prendere impegni a così lungo termine, giacché da un anno sono più i giorni che sto malato che quelli in cui sto bene. E allora, secondo me, la cosa migliore sarebbe che ci risentissimo verso Aprile e se per quell’epoca mi sentirò in forze, potremo metterci d’accordo. Molti saluti per il vostro lavoro e un saluto a voi”.
Se non potrà più stare qui, su questa parete dov’è sempre stato, lo scritto incorniciato di De Filippo troverà posto su un’altra parete, in un altro teatro. “Se dobbiamo chiudere, chiudiamo. Il nostro sogno – confida Carlo – è di riaprire un nuovo teatro. Non so dove e non so quando. Si chiamerà Teatro dell’Acquario o forse Teatro Antonante, anche se mio fratello non ne sarebbe affatto contento. Schivo com’era, gli sembrerebbe eccessivo persino se gli dedicassimo soltanto una targa”. Lasciata la sede di via Galluppi, cosa succederà? “Per il momento – spiega Carlo con razionalità, mettendo da parte il cuore che soffre – ci sposteremo al Cinema Italia. L’Agenda urbana e i fondi Cis prevedono il restauro di tutta una serie di immobili situati nel centro storico. Chissà che il Teatro dell’Acquario non possa un domani tornare lì dove tutto è cominciato. Magari in uno dei tanti capannoni abbandonati sul lungo fiume di Cosenza”. In attesa di quel che sarà, a un mese esatto dalla sua scomparsa, dedichiamo ad Antonello – che dall’alto veglia sul teatro dell’Acquario e sui suoi teatranti, dovunque sarà la loro futura casa – le parole dello scrittore Fabrizio Caramagna:
“Sarò per sempre tra il sole e la luna, disse l’uomo cannone mentre il circo si faceva minuscolo dietro di lui”.
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