ROMA – “In Siria non tornerò più”.
Ad affermarlo è il giornalista Rai calabrese Amedeo Ricucci trattenuto in Siria per dieci giorni e sentito oggi in procura assieme ai colleghi Andrea Vignali, Susan Dabbous ed Elio Colavolpe, il quale aggiunge: “Non ci sono le condizioni per poter fare il mio lavoro. E’ il popolo siriano che deve organizzarsi e creare situazioni di lavoro che tutelino i giornalisti”. Al termine dell’atto istruttorio, durato oltre tre ore, il pm Francesco Scavo ha secretato i verbali. I giornalisti hanno ricostruito le fasi del fermo spiegando di essere stati trasferiti, sempre con gli occhi bendati, in quattro luoghi differenti nel corso del sequestro. “Siamo stati spostati diverse volte – ha spiegato Ricucci -. Dopo l’ultimo trasferimento hanno atteso tre giorni prima di liberarci”. Il giornalista, confermando quanto detto subito dopo la liberazione, ha ribadito che “non c’e’ stata nessuna minaccia fisica”. “Spesso, di notte, sentivamo il rumore dei fucili che venivano ricaricati e questo ci creava preoccupazione”. Quanto alle fasi del loro rilascio Ricucci ha detto: “Sicuramente ci sono state delle trattative tra vari soggetti ma sinceramente non sappiamo dire che cosa abbia favorito la nostra liberazione”. “Il nostro – ha spiegato – è stato una sorta di fermo molto prolungato, che pero’ si e’ risolto in modo positivo. Nonostante tutto ci hanno trattato bene, direi con i guanti bianchi. Paura? Si, c’e’ sempre, perche’ in zona di guerra puo’ succedere di tutto. Le giornate si sono svolte stando chiusi in una stanza, molti di loro non parlavano ne’ inglese ne’ francese, solo l’arabo, e quindi non abbiamo avuto molti contatti se non con i capi del gruppo che si sono mostrati sempre disponibili. Abbiamo fatto la loro stessa vita, mangiato come loro un pugno di zuppa di ceci e per dormire ci hanno offerto le loro stesse brande. Insomma niente di piu’ e niente di meno di quello che offrono a se stessi. Molto probabilmente siamo stati bloccati perche’ potremmo avere filmato qualcosa che loro non volevano, probabilmente un loro ‘check point’ e anche una chiesa distrutta e profanata in una zona di cui il gruppo aveva preso possesso solo da una settimana. Quanto ai sequestratori, non avevano nulla a che vedere con l’Esercito siriano libero: e’ un gruppo islamista armato che ha nella fede il proprio elemento portante. Per me come giornalista la vicenda vissuta offre lo spunto per capire quanto stia diventando sempre piu’ difficile fare questo lavoro da indipendente. La cosa drammatica è che i belligeranti non hanno piu’ bisogno dei giornalisti, per cui li trattano come chiunque altro. E cosi’ diventa sempre piu’ rischioso fare questo mestiere. Certo abbiamo vissuto momenti psicologici molto pesanti. Abbiamo temuto per le nostre vite. Ma per fortuna già mercoledì ci hanno avvisato che saremmo stati liberati. Erano convinti che fossimo spie, sospetto dal loro punto di vista legittimo perché quella è un’area in cui ce ne sono molte. Temevano che avessimo filmato la loro base logistica. Abbiamo spiegato il lavoro che stavamo facendo. Abbiamo mostrato il nostro materiale. Soprattutto, abbiamo potuto dimostrare che noi siamo dalla parte del popolo siriano che si è ribellato a una dittatura. Io non ho mai nascosto queste mie posizioni… Ci hanno tenuti in posti diversi, non proprio prigioni sotto certi aspetti, per altri sì. Nel senso che eravamo privi della nostra libertà, una condizione molto pesante”.