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Emicrania, sono le donne quelle più colpite

Calabria

Emicrania, sono le donne quelle più colpite

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Emerge dalla ricerca “Vivere con l’emicrania” realizzata dal Censis su un campione di 695 pazienti dai 18 ai 65 anni con emicrania e un focus sulla cefalea a grappolo

 

Le donne sono più colpite da emicrania e più precocemente, ma si curano meno. Quasi otto pazienti su dieci sono donne e l’esordio della patologia si registra in media a 21,4 anni di età, contro i 26,1 anni degli uomini. La malattia si manifesta in maniera precoce, prima dei 18 anni, per il 42,1% delle pazienti donne, rispetto al 26% degli uomini eppure proprio le donne si trascurano e dilatano i tempi della diagnosi. Emerge dalla ricerca “Vivere con l’emicrania” realizzata dal Censis con la sponsorizzazione di Eli Lilly, Novartis e Teva su un campione di 695 pazienti dai 18 ai 65 anni con emicrania e un focus sulla cefalea a grappolo. Dalla ricerca è emerso che l’emicrania tende ad essere trascurata e riconosciuta con ritardo. Il 58,9% dei pazienti si rivolge al medico entro un anno dalla comparsa dei primi sintomi, gli uomini più delle donne, ma il 20,7% aspetta più di cinque. Sono le donne a indugiare di più. Il tempo medio per arrivare a una diagnosi è di 7,1 anni: 7,8 anni per le donne, 4,1 anni per gli uomini. La patologia rimane quindi in molti casi non diagnosticata a lungo: il 28,1% ha avuto la diagnosi entro un anno dai primi sintomi, il 30,5% ha dovuto aspettare tra 2 e 5 anni, il 23,4% più di dieci anni. “L’emicrania è un dolore senza materia, non si vede e non si può obiettivare”, spiega Gianluca Coppola, ricercatore neurologo presso il Dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-Chirurgiche della Sapienza, Polo Pontino di Latina. Per Coppola, oltre a riconoscere la cefalea cronica come malattia sociale (vi è stato il licenziamento di un testo alla Camera, ora si attende la calendarizzazione in Senato), occorre prevedere dei fondi perché è fondamentale per rendere gli ambulatori cefalea multidisciplinari. “Con la ricerca abbiamo provato – aggiunge invece Ketty Vaccaro del Censis – a raccontare il vissuto della patologia. Quello che è emerso è una condizione di sottovalutazione sociale che talvolta coinvolge le stesse persone, che ci mettono un po’ ad acquisire consapevolezza che hanno una malattia”.

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