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Coronavirus nelle acque reflue e anche nei fiumi. Lo svela una ricerca italiana

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Coronavirus nelle acque reflue e anche nei fiumi. Lo svela una ricerca italiana

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La buona notizia è che non c’è alcune rischio per l’uomo perché è inattivo. Ma il controllo delle acque può fare da “termometro” dell’epidemia e svelare nuovi focolai

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COSENZA –  Dopo le acque reflue, il nuovo coronavirus è stato trovato anche nelle acque dei fiumi attraverso gli escrementi di chi è positivo, ma la buona notizia è che non c’è alcune rischio, perché è inattivo, dunque incapace di contagiare nuovamente l’uomo. Lo indica la ricerca condotta dall’ospedale Sacco, l’università Statale di Milano e il Centro di ricerche sull’acqua del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) nell’area metropolitana di Milano.

Nello studio, pubblicato su medRxiv, sito che raccoglie i lavori non ancora passati al vaglio della comunità scientifica, i ricercatori hanno eseguito due prelievi il 14 e 22 aprile nelle acque dei fiumi Lambro, che copre il settore orientale del capoluogo lombardo, e Lambro meridionale, che copre quello occidentale, oltre che nelle acque di scolo. “Abbiamo trovato nelle acque reflue le particelle del virus in quantità significative, ma una volta passati nei depuratori sono scomparse. Il virus era presente anche nei fiumi, dove possono esserci arrivate tramite scarichi non trattati o abusivi“, spiega Francesco Salerno, ricercatore del Cnr. In entrambi i casi però il virus SarsCov2 era inattivo, quindi non può ripassare all’uomo. “Non c’è inoltre da temere per l’acqua potabile, perchè in Italia viene prelevata dalle falde acquifere e non dai fiumi”, continua.

Il dato interessante è che l’analisi delle acque “può essere usata come un ‘termometro’ sulla diffusione del virus nella popolazione. Se aumenta, può indicare che sta tornando“, aggiunge Salerno. E in effetti questa è una possibilità che stanno considerando anche gli Stati Uniti. Jay Butler, vicedirettore dei Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), ha parlato della possibilità di monitorare le acque reflue per rilevare “la presenza del virus come marcatore della sua presenza o meno in una comunità. Una pratica questa usata da decenni nei paesi in cui si è eradicata la polio, per verificarne un eventuale ritorno”, e più recentemente negli Usa per tracciare il consumo di farmaci oppioidi. Visto che il nuovo coronavirus può essere rilevato nelle feci entro 3 giorni dall’infezione, dunque prima che compaiano i sintomi nella maggior parte delle persone positive, l’analisi delle acque potrebbe suonare il campanello d’allarme di un nuovo focolaio epidemico in arrivo e aiutare ad evitare una nuova ondata. Anche alcuni studi fatti in Olanda hanno mostrato che il materiale genetico del virus può essere trovato nelle acque reflue 2 settimane prima della diagnosi fatta da un medico del primo paziente. Ancora invece non si è in grado di collegare il numero di persone infette alla concentrazione di particelle virali presenti nelle acque di scolo.

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