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Vittime di abusi ‘rinchiuse’ nei centri antiviolenza: “Siamo numeri”
COSENZA – Maltrattate per anni, costrette a subire. Sono quasi tutte giovanissime.
Alcune hanno con sé i propri figli, altre solo i traumi di vite spezzate. Nei loro occhi la voglia di ricominciare, ripartire, costruire un futuro senza l’ombra di orchi e aguzzini. Ogni giorno nei centri antiviolenza del cosentino si incrociano storie di donne vittime di stupri, prostituzione, percosse. Storie uniche di drammi consumati tra le mura domestiche, per le strade di quartiere, nell’indifferenza della comunità. Con coraggio una donna ospite di un noto centro di accoglienza dell’hinterland cosentino racconta la propria quotidianità denunciando le criticità del sistema ‘antiviolenza’. “Siamo solo merce, numeri, – tuona la ragazza appena ventenne – non abbiamo voce, ci hanno tappato la bocca. Ognuna di noi ha un passato turbolento, ma qui ci pesa ancora di più. Quando usciamo per le strade veniamo additate come quelle del centro, la gente dice ‘poverine’, però nessuno viene qua a portare un quaderno o una caramella per mio figlio o a chiedere se ci serve qualcosa. Eppure basta un piccolo gesto per non sentirsi sole, basta un jeans che non si usa più o un sacchetto di mele a non farci sentire dei fantasmi. Certo stare qua aiuta a crescere, a vedere la vita come le ragazze della nostra età. Solo per merito delle educatrici però, non certo per gli assistenti sociali. Le operatrici ce la mettono tutta, hanno tanta voglia di fare, il loro stipendio se lo guadagnano tutto. Ci sono educatrici che spendono anche soldi di tasca propria per sopperire alle carenze del centro. Ma lo Stato dov’è? Noi sappiamo che non ci sono fondi, non abbiamo infatti mai visto un centesimo, basterebbero 20 euro per sistemare le giostre arrugginite per i bambini, ma non ci sono. Per nessuno. Non si dica che gli stranieri vengano aiutati e gli italiani no. E’ una falsità. Qui siamo tutte uguali, non c’è alcuna distinzione di nazionalità. Non abbiamo un soldo. E non ci danno la possibilità di provare ad organizzarci per lavorare. Noi avremmo bisogno di tenerci impegnate. Se potessimo confrontarci con le ragazze degli altri centri potremmo fare tanti lavoretti d’artigianato insieme, riparazioni sartoriali, si potrebbe fare di tutto, ma non si può. Sembra che il Governo voglia costringerci a tornare in strada a prostituirci”. A confermare la triste verità è l’operatrice di turno. “E’ vero, non abbiamo neanche uno spicciolo per portare avanti dei progetti. Se vogliamo aiutare le ragazze a cercare un’occupazione lo dobbiamo fare nel nostro tempo libero al di fuori degli orari di lavoro. Io lo faccio, vado al centro per l’impiego, mi informo per vedere se c’è qualcuno che ha bisogno di personale. E’ molto difficile anche per noi lavorare così. E’ come se avessimo le mani legate”.
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