RENDE – Tutti noi conosciamo la guerra in Ucraina per le immagini trasmesse in televisione. E’ lì che abbiamo sentito il suono delle sirene dare l’allarme, abbiamo visto gli edifici distrutti, le case devastate e tante persone, mamme, bambini, anziani, lasciare tutto per sfuggire alle bombe e alla morte. Eppure ho incrociato il dramma di chi ha percorso centinaia e centinaia di chilometri per scappare da un conflitto sanguinoso, in quello che per me era un “normale” sabato sera.
Erano circa le 19 quando sono uscita da casa sabato scorso. Ho imboccato l’autostrada da Rende per recarmi a Cosenza, dove mi aspettava un’amica per una pizza e due chiacchiere e invece mi sono imbattuta in prima persona in una delle tante drammatiche conseguenze di quel maledetto conflitto.
Dopo una breve sosta al distributore di carburanti a Cosenza Nord, riprendo la marcia e mi avvio all’uscita dell’area di rifornimento quando ad un tratto, vedo un’autovettura, ferma, al buio, con le sole luci di emergenza accese. “Un’auto in panne – ho pensato – avrà già chiamato qualcuno, il soccorso stradale…”. Ma in un istante si materializza una figura esile, una donna, e insieme a lei un bimbo che, sbracciandosi, chiedevano alle auto di fermarsi. Avevano bisogno di aiuto. Non faccio neanche pochi metri e, le braccia di quel ragazzino su e giù, mi spingono ad arrestare la marcia. Accese le 4 frecce anche io per cercare di essere maggiormente visibile, fermo l’auto e dallo specchietto vedo mamma e figlio corrermi incontro.
Quando si avvicinano noto nei loro occhi lo sguardo di chi tira un sospiro di sollievo e pensa “finalmente qualcuno si è fermato”. Apro il finestrino lato passeggero per evitare di scendere subito dall’auto visto che le auto sfrecciano nonostante entrambe le vetture siano ben accostate sulla corsia d’emergenza.
Con tanta dolcezza mi guardano soltanto, ma non capisco subito perchè non parlano, non dicono niente. A quel punto chiedo: “signora, cosa è successo? Ha bisogno di qualcosa? L’auto si è fermata? Non parte? State bene?“. In un istante mi rendo che quella donna non mi capisce e fa cenno con la testa e le spalle di non comprendere. Con il mio striminzito inglese chiedo “do you speak English?”. La sua ‘testa’ risponde “No”. Con la gestualità provo a chiedere da dove viene, e mi dice solo una parola: “Ucraina“. Di getto guardo il bimbo, poteva avere 10 anni, era infreddolito, spaventato, ma contento che io mi fossi fermata.
Avviso immediatamente la polizia stradale spiegando la situazione. Mi rispondono che avrebbero mandato subito qualcuno. Nel frattempo cerco di parlare con la signora utilizzando il traduttore di Google. Non l’avevo mai usato nella modalità ‘dall’italiano all’ucraino’ e mi rendo conto che è una lingua difficilissima da comprendere. Scrivo alla signora sul traduttore che stanno arrivando delle persone per aiutarla e la invito a tornare nell’auto insieme al figlio. Dopo pochi minuti arrivano gli operatori di Anas. Scendo dallo sportello lato passeggero e vado loro incontro, per spiegare quanto accaduto e che la signora non parla nè italiano nè inglese.
Continuo a dar loro una mano nella comunicazione, sempre con l’aiuto del traduttore, e scopro che la giovane mamma (occhi chiari e sguardo gentile) e suo figlio, sono diretti in Sicilia, da un’amica. “My friend” è stata l’unica parola in inglese che ha saputo dirmi. Poi ho rivolto d’istinto lo sguardo alla targa dell’auto e subito mi sono balzati agli occhi quei due colori che da venti giorni campeggiano ovunque: giallo e blu. Mi sono saliti i brividi lungo la schiena. Dopo qualche minuto gli operatori di Anas mi tranquillizzano, mi invitano ad andare via per la mia sicurezza e mi garantiscono che si sarebbero occupati della signora. Prima di lasciarli però, rivolgo a lei un “ciao” con la mano, poi una piccola carezza al bimbo che mi sorride, mentre la mamma con i suoi occhi stanchi mi ringrazia con le mani giunte. Penso a loro tutta la sera, alla paura negli occhi di quel bambino che si sbracciava su un’autostrada buia per chiedere aiuto. Poi penso: “chissà quante ne hanno passate, quanti chilometri avranno fatto” e prego per loro, affinché possano trovare un po’ di sole nel loro cuore, ferito da una guerra che non guardia in faccia a nessuno.

