Questa è la storia di Jessica, ragazza cosentina che vive il dramma di occuparsi da sola della grave ludopatia del padre da 20 anni: “chi non vive il problema non può comprendere. Il gioco d’azzardo ha il potere di distruggere le persone e le loro famiglie prendendo in ostaggio le loro vite”. Ma non bisogna arrendersi e non ci si deve vergognare
COSENZA – Jessica ha 32 anni, vive a Cosenza e quando ci accoglie nel suo studio ha tra le mani una macchina fotografica. Accenna un sorriso quando ci racconta della sua grande passione diventata poi un lavoro. Ma nei suoi occhi e nelle sue parole c’è tutta la sofferenza di chi da anni, combatte contro un male oscuro, quasi invincibile. L’hanno chiamata “la droga del XXI secolo”, perché la ludopatia è a tutti gli effetti una dipendenza, una patologia. Se entri nel tunnel del gioco d’azzardo, solitudine e isolamento ti portano a cancellare la tua vita e quella dei tuoi affetti più cari. La dinamica di una famiglia che vive la piaga del gioco d’azzardo ce la racconta proprio Jessica, che da anni lotta per aiutare suo padre. Una sorta di inferno dantesco dove da una parte c’è il giocatore, che in modo compulsivo cancella la sua esistenza, diventando un invisibile. Passa ore ed ore a giocare fino a spendere tutto, arrivando spesso a indebitarsi. E in molti finiscono nelle mani dei “cravattari”. Dall’altra ci sono i familiari: madri, mogli e appunto figli, che si annientano psicologicamente e fisicamente, tentando ogni strada possibile ma spesso senza risultati.
Nonostante la crisi, la povertà e la carenza di lavoro, in Calabria e nella nostra città, il gioco d’azzardo è una piaga diffusissima. La voglia di riscatto sociale, quella di avere una vita agiata o semplicemente di vincere e poi giocare nuovamente, viene affidata ad una macchinetta, un tavolo da poker, ai numeri del lotto o ad un gratta e vinci. Il pensiero ricorrente è sempre lo stesso: “se scommetto ogni tanto, cosa potrà mai accadere di così grave?“. Ed è da questa convinzione che nasce l’inganno,che porta alla rovina non solo economica, ma affettiva e sociale. L’azzardo è costruito appositamente per attirare le persone in una sorta di trappola. Se ci pensate, persino le sale dedicate al gioco d’azzardo sono studiate per isolare e limitare il dialogo e il giocatore si ritrova per ore incollato allo schermo o con la testa china su un biglietto. L’azzardo distrugge le relazioni, e scatena tutta una serie di conseguenze: bugie, frustrazioni, aggressività e solitudine. Ecco perché mette in crisi le famiglie che per sanare debiti o per non ritrovarsi davanti all’aggressività del giocatore compulsivo, non riescono più a fare la spesa o a pagare le bollette.
Nel corso degli ultimi anni sono nate diverse associazioni in Italia e sono state promosse numerose tavole rotonde, incontri, convegni, momenti di sensibilizzazione… e in Calabria? A Cosenza? Ci si può rivolgere solo al Sert, che però non cura certamente questo problema con il metadone. Servirebbe costanza, impegno, personale h24 e competenze in materia.
La storia di Jessica
“Sono convinta che dietro a questo problema ci sia qualcosa di genetico, di ereditario. Mio padre ha iniziato a giocare quando ero piccola. Prima nel periodo natalizio con i parenti e gli amici: il poker, i giochi a carte… E già in quelle occasioni si parlava di soldi: le prime puntate, quelle più azzardose e poi addirittura le bollette. La differenza è che questo prima si faceva a casa, adesso invece dovunque vai, trovi possibilità infinite di giocare”.
Dalle slot machine ai giochi a premi di tutti i tipi, con estrazioni ogni cinque minuti: “Io le vedo per le persone che, come mio padre giocano di continuo, magari vincono e giocano ancora, fino a perdere tutto. Nella mia famiglia tutto si è accentuato dopo che mio padre si è ritrovato senza lavoro per via della chiusura dell’attività nella quale era impiegato. Poi ha iniziato a lavorare in un’altra attività dove noi familiari, che prima non avevamo idea della gravità del problema, abbiamo scoperto tutto. Mio padre percepiva uno stipendio, ma stranamente arrivava a casa solo la metà dei soldi. E se prima ci raccontava che lo stipendio non lo riceveva con svariate scuse, dopo anni abbiamo scoperto che in realtà erano solo delle bugie. Si faceva dare spesso anticipi che gli servivano – diceva al suo datore di lavoro – per le medicine e con una scusa usciva per recarsi in farmacia. Uscite sempre più frequenti che hanno fatto nascere i sospetti. Lo hanno seguito e scoperto. E’ stato il datore di lavoro ad avvisarci, perché i giocatori sono bravi a nascondersi, sono molto furbi e trovano sempre il metodo per fare quello che vogliono. Ma non sanno che prima o poi tutto viene a galla. Nonostante sia stato scoperto, la situazione è addirittura peggiorata”.
“Il suo maledetto vizio ha finito per smembrare la nostra famiglia e non ho ricevuto aiuto da nessuno, ma io continuo a lottare e non mi vergogno di quanto mi è accaduto nonostante i parenti non ci credano, dicono che non è possibile che “il sangue del loro sangue” giochi tutti i suoi soldi. E invece negli anni, ha preso denaro in casa o faceva di tutto per trovarne chiedendo anche ad amici e conoscenti. Solo per fortuna non si è rivolto a delinquenti o strozzini”.
Il lavoro, la malattia e la depressione
“Mio padre ha attraversato un profondo periodo di depressione, iniziata già quando ha perso il primo lavoro. Poi si è ammalato di Parkinson e le medicine hanno accentuato questo suo stato d’animo e la ludopatia si è fortemente aggravata. E così l’ho ospitato in casa, ma ho provato a rivolgermi a tantissime strutture ed ho scoperto che per la ludopatia a Cosenza è possibile rivolgersi solo al Sert che però, cura in particolar modo la tossicodipendenza. Non ho trovato nessuna struttura adatta alla situazione di mio padre”. “Io non voglio abbandonarlo – spiega – ma è possibile che non ci sia nulla qui, per curarsi da questo male? Non esistono strutture, tantomeno pubbliche, per monitorare, curare, seguire, aiutare a tenere lontane queste persone da possibili tentazioni, isolandole per certi versi dalla loro quotidiana realtà? A mio padre sono rimasta solo io e non posso lasciarlo solo perchè la sua salute è precaria. Spesso me la prendo con mia madre che lo ha lasciato, ma le responsabilità sono al 50 e 50 perchè lui, un santo non è”.
La solitudine, prima durante e dopo
I luoghi dove si gioca sono ambienti per chi è solo ed è condannato a restare solo. Sono posti dove ti rendi conto che forse c’è chi sta peggio di te. E la solitudine cresce quando realizzi di avere un problema, una patologia, e non trovi nessuno che ti aiuti: “Oggi, temporaneamente mio padre sta meglio ed è in una casa di riposo che pago con la sua pensione, ma poi dovrò prendere una decisione alternativa perchè mio padre non è una persona anziana, ha solo 55 anni. Ma cosa farò? Come potrò evitare che mio padre continui a voler giocare? Non c’è una struttura adatta, non c’è una medicina, non c’è una soluzione e ci sono migliaia e infinite tentazioni. Eppure ci sono centinaia di persone – conclude – che hanno questi problemi e che spesso restano a soffrire in silenzio perchè si vergognano della loro condizione così come i loro familiari… ma chi le aiuta? Ci sono famiglie distrutte, mogli costrette a dare soldi ai mariti, madri e padri che non sanno come gestire i figli. Si organizzano convegni, tavole rotonde, proposte di legge, ma in concreto e soprattutto qua nel nostro territorio vige il menefreghismo, come dire “il problema è tuo e te lo risolvi”. Ma questa patologia non è uno scherzo, non è una stupidaggine. E’ un incubo che nel tempo distrugge e si prende tutto. Ma nel mio caso, non il coraggio di andare avanti”.
