COSENZA – Prosegue il processo ‘Drink Water’. A parlare stamattina, per circa un’ora, è stato l’ex boss indiscusso dei rom: Francesco Bevilacqua alias Franchino i Mafarda.
“Comandavo io, – ha affermato Bevilacqua durante l’udienza che si è svolta oggi presso il Tribunale di Cosenza – ero io il capo degli zingari”. L’uomo che fu il più autorevole esponente del clan dei nomadi bruzi, conferma nuovamente la sua versione: lui era il rais e la droga a Cosenza era un business di cui voleva detenere il monopolio. Un mantra che ripete dal momento in cui si è lanciato nel mondo del pentitismo diventando collaboratore di giustizia. E’ infatti la seconda volta che viene ascoltato nel corso dell’iter dibattimentale che lo vede coinvolto in prima persona con le accuse di associazione, spaccio di sostanze stupefacenti e traffico d’armi. “L’eroina – ha spiegato al giudice Bevilacqua – la prendevo a Gioiosa e la cocaina a San Luca. Poi davo tutto a degli uomini che erano obbligati a prenderla da me per rivenderla, ma non erano affiliati, non erano rom, non erano nostri ‘soci’, erano solo costretti a comprare la droga esclusivamente da me”. Nulla di nuovo rispetto a quanto già rivelato sia sul fronte del narcotraffico sia sul fronte delle rapine. Bevilacqua riconosce la paternità dei due assalti ai portavalori avvenuti a Croce di Magara per ricostruire il sistema di alleanze tra i nomadi di Cosenza e i nomadi di Cassano. “Dopo il carcere in Puglia – racconta Bevilacqua – sono tornato a Cosenza nel ’98. Mi alleai con Cassano, ma fu una finta alleanza che si ruppe subito. C’era il business delle rapine al centro dei nostri accordi. Erano loro che ci davano le armi. Poi mi sono allontanato dagli Abbruzzese”. La prossima udienza in cui ‘Franchino i Mafarda’ renderà la propria testimonianza è stata fissata in Ottobre. Nel frattempo, stamattina, nel corso della stessa udienza è stata ascoltata la sorella Annantonia Bevilacqua. In pochi minuti la collaboratrice di giustizia ha liquidato giudici e avvocati trincerandosi dietro ad un perentorio ‘non ricordo’. I fatti di cui la donna avrebbe dovuto riportare memorie, effettivamente, risalgono al periodo in cui si trovava detenuta nel penitenziario femminile di Castrovillari.
