COSENZA – Il passato che ritorna. Tra lo Stato e Mario Baratta c’è ancora un conto aperto: riguarda l’epoca degli omicidi di mafia, che macchiarono di sangue le strade della città e della provincia nei “caldi” anni ’90.
E’ l’epoca delle sparatorie, l’epoca del coprifuoco, l’epoca della guerra fra i clan per il controllo del territorio e la gestione dei traffici illeciti. Tutto questo “fardello” dell’Antistato, finì nelle carte della maxi inchiesta antimafia “Garden”, il primo grande processo alla mala cittadina, che svelò retroscena, conti aperti tra le cosche, sentenze di morte decise dal tribunale della ‘ndrangheta, moventi, mandanti, esecutori e tanto ltro. Per Mario Baratta il processo “Garden”, nonostante siano passati tantissimi anni dalla sua conclusione, finito con sentenze di condanna e qualche assoluzione, è ancora aperto. Baratta, 60 anni, alias “Il sudamericano”, è l’unico dei 151 imputati del processo a non aver definito la sua storia con lo Stato. Questo perché a maggio del 2010, la Cassazione aveva annullato la sua condanna all’ergastolo per l’omicidio di Mariano Muglia (1983) in virtù di un errore procedurale scovato dai suoi legali. Si trattò della mancata notifica della sentenza di primo grado che, di fatto, aveva leso il suo diritto alla difesa. A seguito di quel provvedimento, Baratta era uscito di galera, dopo più d’un decennio trascorso in carcere e ora affronterà da uomo libero il nuovo processo che per lui, sarà una sorta di storia già vissuta, un ritorno allo spietato e sanguinario passato a quegli anni del terrore, un verdetto senza fine. Nel primo processo “Garden”, Baratta venne condannato per aver fatto parte dell’associazione mafiosa diretta da Franco Perna e Mario Pranno, ma a far scattare per lui il carcere a vita, fu il suo coinvolgimento nell’omicidio di Mariano Muglia, consumato a maggio del 1983 nel pieno della guerra di mafia che, in quel periodo, impazzava in città. Quel giorno, il suo compito sarebbe stato quello di guidare l’auto con a bordo i killer (Salvatore Pati e Giuseppe Vitelli). Non a caso, numerosi collaboratori di giustizia, tanto in “Garden” quanto in altri processi, avevano diffusamente parlato a proposito della sua abilità nel pilotare le autovetture. Secondo il pentito Franco Garofalo, inoltre, era lo smembramento e la distruzione dei corpi un’altra pratica per cui l’uomo mostrava particolare propensione. Quando nel 1994 vennero spiccati i mandati d’arresto per “Garden”, però, Baratta riuscì a evitare la cattura, riparando in Brasile. Nel globo sudamericano sotto altra identità, facendosi chiamare Mario Zanardi, si nascose per anni, chiudendo il cancello al suo passato criminale e cercando di seminare l’inseguimento delle forze dell’ordne che lo cercavano per arrestarlo. In qurgli anni, conobbe le sbarre del carcere di Bangù da quale, però, riuscì a evadere corrompendo le guardie. La sua latitanza, però, si concluse nel 2001 quando la polizia locale lo ammanettò a Goiana, città della regione di San Paolo. Dopo essere stato restituito alle autorità italiane, Baratta venne assegnato al penitenziario di Rebibbia prima e Viterbo poi, dov’è rimasto fino a un anno fa, quando proprio per quel difetto di notifica, per lui arrivò la libertà. Di recente, poi, aveva incassato un’ulteriore condanna a 23 anni di reclusione nell’ambito del processo “Missing” che lo vede, però, imputato a piede libero. In quel caso, fu riconosciuto colpevole di 2 omicidi che avrebbe contribuito a eseguire, sempre durante la guerra di mafia: quelli di Giovanni Drago e di Francesco Scaglione, avvenuti rispettivamente nel 1981 e nell’83. Anche con riferimento a quei fatti, è tuttora in corso il processo d’Appello. Gli avvocati che, per ora, lo hanno tirato fuori dal carcere sono Paolo Pisani, Giuseppe Belcastro e Piergiuseppe Cutrì.