Nel corso dell’anno appena terminato la produzione di miele in Italia ha subito un forte rallentamento, con particolare riferimento alla situazione del comparto apistico calabrese.
Se il nostro miele è in pericolo la causa è da ricercare nella comparsa nel 2014 di un coleottero parassita di origine africana chiamato Aethina Tumida o Piccolo coleottero degli alveari. Il parassita in questione si nutre di polline e miele e ne causa la fermentazione, invalidandone la vendita. La sua tecnica è piuttosto particolare poiché, una volta entrato nell’alveare, riesce a lanciare segnali riconosciuti dalle api operaie che lo lasciano libero di mangiare il miele e di deporre le uova da cui nasceranno le larve. Queste appena sviluppate usciranno dalle arnie depositandosi sul terreno e trasformandosi in animali adulti, completando il loro ciclo vitale.
Le api e la loro sopravvivenza da sempre rappresentano un indicatore fondamentale dell’equilibrio dell’ecosistema mondiale. Tale importanza è stata ribadita in uno studio internazionale pubblicato nel 2015 da Greenpeace, intitolato “A come ape. Un’agricoltura senza pesticidi è possibile”.
In questo studio è stato evidenziato un declino delle api a livello globale e una conseguente “crisi degli impollinatori”. Le api, infatti, non si limitano a produrre miele ma forniscono servizi d’impollinazione essenziali per la resa e la qualità delle colture.
La situazione creatasi in Calabria ha indotto la Giunta Regionale a emanare negli ultimi mesi del 2014 un decreto in cui è disposta la bruciatura dell’intero apiario, cioè se in un’arnia è riscontrata la presenza del parassita anche tutte le altre nello stesso luogo, quindi nello stesso apiario, devono essere distrutte. Bisogna poi arare il terreno e cospargerlo di pesticidi anti-larvali.
Quest’attività distruttiva ha ricadute economiche non indifferenti, se pensiamo che una sola arnia di api può contenere dalle 50 alle 100 mila api. A questo proposito gli apicoltori calabresi non hanno accettato questa situazione (nel corso del 2014 sono stati inceneriti circa 3600 apiari riconosciuti ufficialmente infestati) e hanno costituito a Lamezia Terme, a ottobre del 2014, il Gruppo autonomo permanente “Salviamo le api”, cui hanno aderito oltre 70 apicoltori che allevano circa il 60% del patrimonio apistico calabrese. Gli apicoltori, in particolare, hanno depositato un ricorso al Tar chiedendo la sospensiva e la revoca dell’ordinanza regionale e hanno attivato un gruppo di esperti tecnico–scientifici per proporre soluzioni alternative al problema.
Nel marzo del 2015 una delegazione politica calabrese, insieme a esperti dell’Università di Reggio Calabria ed esponenti degli apicoltori, è stata ricevuta a Roma al Ministero della Salute per discutere delle possibili azioni da intraprendere per contrastare il diffondersi del parassita. La delegazione, in particolare ha proposto la sperimentazione di nuove metodologie di contrasto al parassita meno invasive rispetto a quelle adottate in origine dal Ministero della salute. Finora i roghi però non sono riusciti a sconfiggere il parassita e, come ci ha confermato dottor Gaetano Mercadante dell’Aprocal (Apicoltori Professionisti Calabresi), dopo un periodo in cui la minaccia sembra essere stata respinta, il fenomeno si è ripresentato a ottobre 2015, sia pure in forma blanda con alcuni nuovi casi segnalati dagli apicoltori.
La scelta di questo metodo di “radicazione”, utilizzato solo in Europa, che distruggendo gli apiari infestati, comprese arnie non infette, esclude di sperimentare altri metodi, in uso in America, Canada e Australia che prevedono, invece, sistemi e tecniche efficaci alla prevenzione e al controllo del parassita già nello stato larvale e sono meno problematici di quanto avviene per altri parassiti infestanti noti da qualche tempo agli apicoltori. Si sono raggiunti, infatti, buoni risultati con trappole chimiche al posto dei roghi come contenimento del moltiplicarsi del parassita e l’adozione di metodi ecologici, limitando l’uso dei pesticidi chimici di sintesi.
Il rischio che l’infestazione si estenda a tutto il territorio italiano, è reale e ciò potrebbe significare il blocco totale delle esportazioni, con una perdita stimata di un giro d’affari da 70 milioni di euro. Il problema, come affermano diversi entomologi, è capire che non si tratta di un’infezione risolvibile con l’abbattimento degli animali, com’è avvenuto con l’epidemia di “mucca pazza”,perché la tecnica utilizzata della distruzione dei focolai non ha funzionato.
L’alternativa a una tale situazione è l’insorgere di un grave stato di difficoltà per le aziende apistiche, come afferma l’Associazione “Salviamo le api” di Lamezia Terme, le quali rischiano di chiudere e con esse rischia di entrare in crisi un settore che rappresenta per la regione un punto di forza e di eccellenza, anche per l’alta incidenza di produzioni biologiche certificate. Inoltre ha già compromesso la vitalità ambientale, con seri rischi per le colture agrumicole e ortofrutticole e la complessiva biodiversità.