Dopo i greci, la seconda importante influenza sulla gastronomia della Calabria fu quella derivante dall’occupazione romana.
Non vi furono particolari stravolgimenti rispetto al periodo greco, anche se in questa epoca storica sono stati introdotti l’insalata di cavolo crudo, una purea di fave diffusa anche nella vicina Sicilia (“maccu”), le lagane, tagliatelle corte e spesse (consumate, come abbiamo visto, anche a Sibari, durante il periodo magno greco), condite con verdura, strutto o lardo fuso, miele e non ancora con ceci com’è tradizione ai nostri giorni nel territorio cosentino. Sotto il dominio dei romani, la Calabria entrò in un periodo di profonda crisi economica e sociale. Pur non subendo stravolgimenti rispetto agli usi delle colonie greche, cambiarono però i metodi, sempre più ricercati, di preparazione dei cibi.
La dieta più diffusa in quasi tutti gli stati sociali continuò a essere semplice e parca, costituita prevalentemente da cereali inferiori (come farro e orzo) e frumento, pane e legumi (abbondante, infatti, era il consumo di purea di fave). Diffuso era anche il consumo di vegetali, erbe selvatiche e asparagi. Come frutta, al tempo, i calabresi sceglievano mele e pere, ma anche melograni, noci, nocciole e bacche selvatiche. I fichi, invece, erano dati prevalentemente agli schiavi come companatico.
Molto usato era anche il cavolo del Bruzio, un ortaggio dalle grandi foglie, dal fusto sottile e dal sapore molto acuto. Il formaggio era preparato con latte proveniente in prevalenza da ovini e caprini. Buono era il consumo d’olio d’oliva e vino locale, quest’ultimo bevuto come aperitivo prima del pasto mescolato al miele e quello di carne suina, ma anche ovina, caprina e di volatili, preparate con molte spezie e le erbe profumate.
L’avvio di un’estesa attività di lavorazione del pesce, anche se la pesca del tonno era già praticata attivamente durante il dominio greco, aumentò di molto il consumo in vari strati della popolazione.
Nei dintorni dell’antica Valentia, esisteva un sistema costituito da due gruppi di vasche scavate nella roccia che erano utilizzate per la cattura e la conservazione del pesce fresco. Lungo la costa ionica era preparato una specie di caviale (antesignano della nostra “sardella”) preparato con neonata di pesce salato e pepato, che era esportato con successo sulle tavole di Roma. In Calabria sulle tavole dei romani benestanti erano abbondanti cibi raffinati e anche stoviglie di lavorazione migliore rispetto a quelle prodotte dai greci. Per quanto riguarda, invece, il vitto che era fornito agli schiavi e ai servi consisteva di solito in fave crude e pane di miglio non fermentato.
IL MEDIOEVO GASTRONOMICO CALABRESE
Sotto il dominio bizantino la cucina calabrese fu fortemente influenzata, impoverita e semplificata, dall’introduzione da parte della cultura cristiana di elementi nuovi legati in particolar modo alle ritualità sacre. Per la Pasqua, ad esempio, fu introdotta una ciambella dolce con un uovo intero fissato con una piccola croce di pasta: la “cuzzupa” (conosciuta anche con altri nomi in base al territorio). Il monachesimo basiliano comportò l’utilizzo in cucina di vegetali, carni ovine e suine, incluse le interiora non più utilizzate per riti sacrificali e pesce essiccato. Gli arabi introdussero nuove coltivazioni (agrumi, melanzana, riso, gelso bianco), l’uso del pepe e del peperoncino fu ampliato.
Altro piatto di sicura derivazione araba, la “mustica”, derivava dalla pratica di mettere le acciughe appena nate sott’olio (in epoca moderna si è aggiunto il peperoncino).Si tratta di un cibo conservato, dunque di una risorsa vitale per i borghi dell’Appennino calabrese, dove la disponibilità di provviste non deperibili era a quei tempi una necessità per la sopravvivenza.
Anche alcuni dolci della tradizione calabrese, non legati in particolare al mondo contadino, testimoniano contaminazioni culturali arabe, come la pasta di mandorle, usata per i dolci di marzapane, o le “giurgiulene”, piccoli torroncini a base di miele, mandorle, scorzette di arancio e semi di sesamo.
La cucina calabra vide un lento declino e il succedersi di diverse dominazioni, di terremoti, pestilenze e attacchi pirateschi, rese ancora più povero il popolo calabro costringendolo a modificare le proprie abitudini alimentari.Anche nel periodo medioevale vi fu la persistenza di uno stato di crisi economico-sociale per le classi più povere.
I contadini potevano cibarsi solo di pani, focacce, minestre, zuppe e polenteprodotte con segale, avena, orzo, e miglio. Il pane ottenuto con il frumento costituiva una scelta destinata esclusivamente alle classi nobili che usavano consumare anche la carne, mentre quelle di capra, pecora e maiale erano destinate, in rare occasioni alle classi più povere. Queste erano perciò costrette a una dieta costituita quasi esclusivamente da erbe di campo, legumi, castagne e frutta. Il consumo di pesce, invece, era assai diffuso nelle zone costiere tra tutte le classi sociali. L’unico condimentoa disposizione dei contadini era lo strutto o il lardo, mentre assai raro era il consumo di olio d’oliva.
Il pane era prodotto utilizzando tutti i tipi di piante, perfino la scorza degli alberi o le castagne, di solito destinate all’alimentazione dei maiali. Le verdure, abbondanti sulle tavole più povere, erano del tutto assenti sulle tavole delle classi più ricche, grandi consumatori di carne, servite con spezie, di pesci pregiati, di pane bianco, di vino e olio d’oliva. La classe contadina, spesso afflitta da lunghi periodi di carestie e privazioni alimentari, era quindi assai più povera e, pur se alcuni religiosi del tempo andavano affermando che una tale dieta rendeva gli uomini più sani, virtuosi e vicini a Dio, di sicuro era costretta a vivere affamata e denutrita.