Voltarelli: il maestro di Calabria che conquista il mondo con il dialetto

COSENZA – Una chitarra, due ore piene di canzoni, monologhi ricchi di calabresità e sold out ovunque. E’ questa la colonna sonora che accompagna Peppe Voltarelli, in giro per il suo tour nazionale ed internazionale.

Il cantautore cosentino, nativo di Mirto Crosia, porta la sua calabresità ovunque. Lo fa con l’ironia tipica di chi ha fatto della sua arte non un mezzo di lavoro, ma una missione, con lo scopo primario di divertirsi e divertire. L’ultima tappa del suo concerto è stata al El Cid di Los Angeles e ancora a distanza di ore, ancora il pubblico continua a battere le mani, tributandogli tutto l’affetto che merita. Lo raggiungiamo telefonicamente. Nonostante le ore di volo, gli spostamenti, le prove e poco sonno addosso, il maestro Voltarelli, ci concede un’intervista. Peppe Voltarelli non ama le formalità, gli piace che lo spettacolo sia fatto da lui e dal pubblico insieme. Lo abbiamo conosciuto a El Cid di Los Angeles, dove ha portato Il viaggio, I padri, L’appartenenza, monologo di teatro-canzone che dal 2011 sta toccando i palcoscenici di tutto il mondo. «Che dire evviva la Calabria, evviva Quicosenza, evviva la musica».

IL PERSONAGGIO – Partiamo dall’inizio, da quando Voltarelli lascia la Calabria, dove è nato e cresciuto, per andare a studiare a Bologna. Sono i primi anni ’90: nasce Il Parto delle Nuvole Pesanti, di cui Voltarelli è frontman. Il gruppo è tra i primi in Italia ad usare il dialetto per una musica che non è folk, ma un più forte ed energetico rock italiano. Una scelta coraggiosa, fatta nel posto giusto al momento giusto. «Bologna era una città piena di studenti provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. Per questo c’era una grande apertura mentale. La diffidenza iniziale è durata poco e si è trasformata invece in grande affetto e supporto. Ci è stato riconosciuto il merito di aver preso in mano il nostro dialetto, a volte anche duro nei suoni, e di averne fatto musica. Da allora molti altri lo hanno fatto, anche con successo». Quello che di più affascina di Peppe Voltarelli è la sua semplicità, quella tipica di chi è grande nella sua umiltà. A Voltarelli non piace sentirsi addosos l’etichetta di personaggio, i personaggi, come dice lui stesso, preferisce farli fare altri altri, ha chi lo è veramente. Peppe ha nel suo dna la capacità di catturare tutti con una battuta, una frase gettata lì ad affetto, in dialetto cosentino. Gli chiediamo come il dialetto possa essere accolto all’estero. Nulla di più facile, ci spiega Peppe. «Chi non parla l’italiano, non fa differenza tra dialetto o lingua ufficiale. Molto spesso anzi, gli emigrati del sud di vecchia generazione hanno meno difficoltà con il dialetto perché è quello che hanno conosciuto da piccoli. La lingua è una barriera che può essere superata se la musica ha valore di per sé». Dopo anni, Voltarelli lascia il gruppo per dedicarsi alla carriera solista. «Il gruppo è come una famiglia, ci sono obblighi e doveri, e per quanto io abbia amato gli anni de Il Parto delle Nuvole Pesanti, non mi sentivo di averne più. Da solo è diverso, posso andare nella direzione in cui voglio senza dover mettere d’accordo nessuno. Se sbaglio, sbaglio da solo, se arrivo a un traguardo ci arrivo da solo. E di traguardi il cantautore calabrese ne ha già raggiunti: oltre al palcoscenico, Voltarelli ha lavorato anche per il cinema e il teatro, scrivendo musiche per Fuga dal Call Center di Federico Rizzo, La Vera Leggenda di Tony Vilar di Giuseppe Gagliardi (di cui è anche interprete), e in seguito di Tatanka, dello stesso Gagliardi. Nel 2010 si è aggiudicato inoltre la Targa Tenco come miglior album in dialetto, assegnata per la prima volta ad un lavoro in calabrese. Il Viaggio, I padri, L’appartenenza, che lo ha portato in questi giorni a New York, Los Angeles, Portland e Seattle, fonde storie di emigrazione, impegno politico e capacità di guardare alla storia e alla realtà, anche quella più nera, col sorriso. «C’è dentro la mia esperienza di emigrato e quella di tutti gli altri. C’è il distacco e la riscoperta delle proprie radici viste da lontano, e c’è l’accettazione di quel patrimonio che è nostro, che ci portiamo dentro, che ci piaccia o no. Sta a noi poi trarre il meglio da questo bagaglio e farlo diventare un nostro punto di forza, un elemento identificativo. La musica, la sua musica, i suoi suoni, le sue note, raccontano il Sud, alludono a paesi e paesaggi, alle storie dei briganti e degli anarchici, all’abbandono dei luoghi, senza banali nostalgie, ma con un forte senso di appartenenza. «Come dicevo, questi luoghi, queste storie, noi emigrati ce le portiamo dentro, ora come cent’anni fa. Essere critici però è la chiave di tutto, altrimenti si rischia di cadere in quel revival non solo musicale, ma anche culturale a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Il sud Italia è un posto difficile, questo è un dato di fatto. Esaltarne i lati piacevoli fino a non vederne più le problematiche è una mossa sbagliata, un tentativo di legittimazione decisamente non costruttivo». Grazie Peppe, grazie e non solo per l’intervista.

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