E’ così diffusa la tendenza a compiere azioni che confliggono con la morale, almeno con quella comune, che c’è da chiedersi se nel fare ciò esista o meno, da parte di chi commette queste azioni, la consapevolezza di questa trasgressione.
Tale dubbio sorge in quanto notiamo che queste persone, nella vita di tutti i giorni, sembrano vivere in pace con la loro coscienza, senza avvertire nessun tipo di tormento interiore, e continuando a nutrire rispetto per se stesse. Se la risposta dovesse essere che nella maggior parte dei casi ci sia la consapevolezza di aver commesso un’azione moralmente disdicevole, allora dovremmo chiederci come si possa ciononostante convivere con essa, e restare, almeno apparentemente, sereni e senza rimorsi. Deve esserci, evidentemente, qualcosa che preserva dall’assalto di tormenti e di pentimenti. Potrebbe trattarsi di un meccanismo che, come dice lo psicologo Albert Bandura, in un suo saggio (Disimpegno morale), prevede una strategia o meglio delle strategie da mettere in atto per venire fuori da questa situazione di conflittualità, e che di solito aiuta ad eliminare il conflitto stesso. Si tratta di una forma di “disimpegno morale” che consentirebbe di vivere bene nonostante si faccia del male.
Premesso che rispettare una condotta morale (dei criteri morali) comporta non solo evitare di fare del male in maniera diretta, ma anche avere a cuore le sorti delle persone che stanno male o che sono in difficoltà, (in altri termini, non basta, per rispettare la morale, non fare del male a qualcuno, ma è necessario fare anche del bene alla gente). Escludendo il caso, possibile, sebbene poco probabile, in cui come spiegazione a comportamenti disdicevoli c’è il mancato riconoscimento della loro immoralità, i motivi che potrebbero spiegare la convivenza, in una stessa persona, di una sua condotta immorale, percepita come tale, e la capacità di non risentirne il peso nella vita quotidiana, possono essere ricondotti almeno a tre.
Essere in possesso di una specie di compassione selettiva, che permette di compiere azioni malvagie nei confronti di alcune persone ed essere compassionevoli magari nei confronti di altre (a volte nei confronti degli animali), cosa che andrebbe ad alleggerire il peso della loro coscienza. Ritenere che la responsabilità di quella azione, pur riconosciuta come moralmente biasimevole, non sia propria ma di altri, e quindi addebitabile insieme alla colpa al mandante o a chi si trova in alto nella catena di comando. Ritenere colpevoli di qualche mancanza le vittime stesse, cosa che porterebbe a scaricare su di loro la colpa dell’azione riprovevole. In questo caso, il disimpegno morale e quindi la sospensione del meccanismo di autocensura possono scaturire addirittura da una forma di deumanizzazione delle vittime. Queste ultime verrebbero considerate come persone spregevoli, perché ritenute responsabili di colpe gravi, vere o presunte tali, o come il male assoluto, per colpe ancestrali, capaci di attirare su di loro delle azioni punitive. Tutto ciò consentirebbe agli autori di queste azioni, di eludere le sanzioni della coscienza e di autoassolversi.
In ogni caso, tutte queste situazioni hanno due elementi in comune: la sospensione delle norme morali, che dovrebbero indirizzare le nostre azioni, e la sospensione del giudizio di noi stessi. Tra i tanti sono i casi in cui il disimpegno morale si manifesta, gli episodi di pedofilia nell’ambito della Chiesa cattolica sono forse l’esempio più emblematico. Qualora avesse senso stabilire una classifica della gravità delle modalità con cui una persona può compiere un’azione immorale, potremmo dire, parafrasando Marco Aurelio, che tra una colpa commessa con manifestazione di dolore e una colpa commessa facendo finta di niente o, peggio ancora, con piacere, non vi è dubbio che sia molto più condannabile quest’ultima.