Quando ci troviamo in una situazione drammatica essa ci appare in modo completamente diverso rispetto a come possiamo vederla da semplici spettatori, o rispetto a quando, pur avendola vissuta in prima persona, la ripercorriamo con la mente, a distanza di molto tempo.
Questa considerazione che può sembrare ovvia, non lo è poi tanto se consideriamo che ciò che avviene in questi casi è il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare. Una situazione di sofferenza estrema riesce a risultare, paradossalmente, nella maggior parte dei casi, più comprensibile, più tollerabile e più gestibile da parte della persona interessata che da parte di uno spettatore, ovviamente dotato di particolare sensibilità ed altruismo, che prova ad immedesimarsi in essa.
In uno spettatore di questo tipo si determina una sensazione che è un misto di tristezza, di rabbia e di impotenza, accompagnata dall’ idea che una condizione simile sarebbe per lui impossibile da sostenere, o sicuramente molto di meno di quanto sembra riuscire a fare la persona che ci si trova dentro. Questa diversa percezione trova la sua spiegazione in quello che sembra accadere spesso, ma non sempre purtroppo, nella realtà, e cioè che nella persona colpita da una grave avversità, come può essere una guerra o una seria malattia, o un lutto, nella maggior parte dei casi, viene fuori una notevole capacità di sopportare, di resistere e soprattutto di reagire, la cosiddetta resilienza, che consente di trovare le risorse psicologiche per reagire in maniera positiva, ad eventi traumatici (il termine è stato introdotto da Boris Cyrulnik in uno studio su bambini sottoposti a traumi violentissimi).
La messa in campo di questo tipo di risorsa per affrontare un evento negativo avviene, molto verosimilmente, anche per l’acquisizione della consapevolezza di non avere alternative e di dover necessariamente fare i conti con esso, di doverci convivere, cercando di trarne qualche momento di conforto, sapendo di avere nella speranza l’unico punto di appoggio.
Quando vedo in quei territori martoriati da guerre e da attentati, persone che, nonostante quelle tristi condizioni, quella sofferenza sovraumana, ed il rischio costante di morire, riescono ad accennare ancora un sorriso, sebbene con lo sguardo pieno di tristezza, mi viene da pensare che davvero la sola cosa che possa sorreggerle debba essere la speranza che quella condizione possa cambiare prima o poi. Capisco che se quelle stesse persone potessero come d’incanto vedere cosa c’è al di là del loro mondo, e da questo nuovo punto di osservazione (cioè dal nostro) potessero guardare le immagini della loro condizione o quella dei loro familiari, la loro angoscia sarebbe ancora più grande, e verrebbero sopraffatti da essa. L’idea di dover tornare in quei luoghi e di dover riprendere la vita di prima forse li priverebbe di quella forza d’animo che li ha sorrette fino ad allora.
Qualcosa di simile avviene quando ci si imbatte in una grave malattia. In questi casi, dopo i primi momenti di smarrimento e di sfiducia totale e di depressione, si prova ad affrontare quella situazione con una forza d’animo, spesso fuori dal comune. Tale capacità di reagire, come dicevo, riesce quasi incomprensibile a coloro che osservano dall’esterno, e fa sorgere loro il dubbio che, trovandosi nella stessa situazione, difficilmente saprebbero reagire nello stesso modo. Ma, già il constatare che una tale reazione avviene molto spesso, può sortire qualcosa di buono: lasciare la speranza che se colpiti dalla sfortuna si possa avere almeno la fortuna di possedere, e quindi di metterla in campo, questa capacità di reagire positivamente alle avversità.