COSENZA – Lanzino, Cicero, Chirillo e Chiodo. Un potente quartetto. Il più potente della città.
In grado di decidere della vita di chiunque con un semplice movimento del polso. Ieri in Corte d’Assise il collaboratore di giustizia Roberto Violetta Calabrese ha ‘vomitato’ ai giudici il suo passato ultraventennale tra le fila della ‘Cosenza che conta’. Lo scenario reso dal pentito nell’ambito dell’interrogatorio con al centro l’omicidio del contabile della malavita Carmine Pezzulli è agghiacciante. Si sarebbe trattato di una vera e propria commissione giustizia che con un gesto del pollice votava democraticamente se uccidere o meno personaggi scomodi al regolare svolgimento delle attività del clan: “il pollice all’insù significava che quella determinata persona era stata graziata. Rivolto verso il basso, invece, non avrebbe avuto scampo”. Violetta Calabrese nel ‘cantare’ i retroscena della ‘ndrangheta cosentina si difende dicendo di non essere mai stato affiliato, di non aver mai partecipato a fatti di sangue, ma di essere semplicemente a conoscenza dei fatti in quanto investito dell’attività di usura per conto dei boss: “mi occupavo di prestiti a strozzo e qualche volta mi è stato chiesto pure di intervenire su alcune richieste di “pizzo”. Su quello che accadeva nei clan venivo spesso informato dai fratelli Castiglia, che erano miei amici”. Sul banco degli imputati vi sono i presunti esecutori del ‘ragioniere della morte’ giustiziato nel 2002 per aver fatto scomparire ben 800 milioni dalla cassa comune della criminalità organizzata bruzia. Davanti ai giudici Violetta Calabrese appare sereno e parla, parla, risponde ad ogni domanda. Con dovizia di dettagli. Facendo i nomi.
“Dal 1985 cominciai ad avere rapporti con persone che gravitavano negli ambienti della ’ndrangheta. Prima con Michele Bruni, successivamente con i fratelli Tonino e Mimmo Castiglia. Quando, verso la fine degli anni Novanta si cominciò a combattere la guerra di mafia, decisi di mettere molti chilometri tra me e Cosenza e andai a vivere tra Bologna e Firenze anche perchè in quel periodo avevo avuto un problema con Lanzino”. Poi si sofferma sull’omicidio Pezzulli per il quale la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro punta il dito contro Davide Aiello: “Quella mattina ero insieme a Pezzulli e a Tonino Castiglia ai campetti dell’Azzurra. Restammo lì per qualche ora, poi ci salutammo. Solo più tardi appresi che era stato ammazzato. Quattro o cinque giorni dopo, incontrai Mario Trinni in via Caloprese e mi svelò dei retroscena sul delitto che disse d’averli appresi da voci nella città. Mi disse che il mandante sarebbe stato Domenico Cicero mentre gli esecutori materiali sarebbero stati Aiello e Gianfranco Sganga. Io gli suggerii di non andare in giro a parlare di quelle cose se non ne era sicuro. Successivamente, però, tra il 2003 e il 2004, a casa dei Castiglia, mi vennero indicate le stesse persone con identici ruoli”. Il coniglio dal cilidro salta fuori quando il pentito riesuma il delitto Chiarello, il ragazo ucciso a Cassano nel ’99 con un mitragliatore, fatto a pezzi e poi sciolto nella calce dopo essere stato attirato in una stalla. Lo scenario che però apre Calabrese si allontano da quello fornito da altri ‘notabili’ collaboratori di giustizia: ”Chiarello venne ucciso per una partita di droga non pagata. Eroina che avrebbe preso Michele Bruni il quale fu abile nell’attribuire la responsabilità dell’“ammanco” proprio al ragazzo scomparso. E sarebbe toccato poi a Franchino i’ Mafarda organizzare il suo omicidio”.