Il centenario che non voleva smettere di fare l’atleta

MILANO – Ha scelto di fermare il tempo. Gli anni, che a novembre sarebbero stati 101. I secondi, contro i quali aveva combattuto in pista, nella sua seconda vita da atleta. Una fila di record del mondo e venticinque primati nazionali nella categoria Master. Sette medaglie ai Mondiali per veterani del 1997 in Sudafrica.

Vittorio Colò ha corso fino al 2006 quando aveva 95 anni. L’ultimo record è di due anni prima: tre metri nel salto in lungo nella categoria over 90. Ieri, poco dopo mezzogiorno, è uscito dalla sua casa di via Pergine, davanti al Monte Stella al quartiere Qt8. Ha percorso poche centinaia di metri a piedi, è entrato nella chiesa dedicata a Santa Maria Nascente e s’è sparato un colpo di pistola alla testa.

Un unico, letale, proiettile dall’arma che per anni aveva regolarmente denunciato. Sul pavimento, appoggiati con ordine e cura: la carta d’identità, un foglietto con il nome e il numero del cellulare del figlio, una serie di lettere indirizzate alla famiglia. La grafia ferma, poche parole per chiedere scusa. Nessuna motivazione, solo la stanchezza – come ricorda il figlio arrivato in parrocchia assieme alla moglie – per una vita che stava presentando il conto: «Da quando aveva smesso con lo sport era iniziato un lungo malessere, non una depressione. Ma qualcosa gli mancava. Un anno fa, dopo la festa per i 100 anni, con l’Ambrogino d’Oro del Comune, sembrava essere tornato più solare. Poi il calo fisico s’era fatto sentire, non lo accettava».

La sua gioventù era durata fino ai 95 anni, senza invecchiare mai, correndo a 89 anni i 100 metri in 16 secondi e mezzo. «Era la sua vita, adorava confrontare statistiche e record – spiega il figlio -. Viaggiava per il mondo e non smetteva di allenarsi». Non un eterno ragazzo, nessun patto con il diavolo. «Sapeva che il tempo non lo avrebbe risparmiato. Non era Dorian Gray, sfidava la mente e il fisico, non la vita», racconta chi si allenava con lui nel centro XXV Aprile. Il campo d’atletica che intravedeva dalla finestra del suo balcone. Lì dove tutto era in qualche modo cominciato.

Colò, nato il 9 novembre 1911 a Riva del Garda (Trento), da studente del liceo venne arruolato per il Gran premio dei giovani. Era il 1929. Una gara, poi subito la finale nazionale del pentathlon. I record regionali e gli anni nelle fila della gloriosa scuola d’atletica Quercia di Rovereto. Infine il trasferimento forzato a Milano per gli studi universitari (Chimica) e il lavoro in una grande industria. Lo stop con l’atletica «a malincuore», come racconterà lui stesso in un’intervista ad una rivista dedicata al mondo della corsa: «Arrivavo quinto o sesto nazionale, non aveva senso proseguire». Un amore interrotto, ma mai sopito. Dopo la pensione il ritorno sulla pista grazie alla storica associazione sportiva milanese Atletica Riccardi. Prima come allenatore: conseguì il «patentino» e iniziò a lavorare con i ragazzi due giorni a settimana. Inventò i corsi di avviamento all’atletica. Suo allievo è stato Andrea Colombo, finalista nella 4 x100 ai Giochi di Sydney. Poi le gare Master, una sorta di grande campionato mondiale diviso per fasce d’età. Colò le ha scalate tutte fino, appunto, alla M95 dedicata agli ultranovantenni. Vittorie, podi e record tanto da farne diventare un personaggio internazionale. Interviste, servizi fotografici, perfino la Rete che impazzisce per quello che ribattezzano «il nonno sprint». Di lui si sono innamorati anche i giornalisti sportivi del Mundo , dopo una gara in terra di Spagna. Colò è un atleta forte e invincibile, con le dovute proporzioni, come Usain Bolt o Michael Phelps.

Accanto, dopo il matrimonio celebrato quando aveva cinquant’anni, la moglie Enrica. Un unico figlio, che oggi lavora in Università, due nipoti. Proprio la moglie oggi sarebbe dovuta tornare a casa dopo una degenza ospedaliera. Non è più autosufficiente, ha bisogno dell’assistenza di una badante. Vittorio Colò, invece, continuava se non altro a camminare. A quasi 101 anni ogni mattina andava fino all’edicola di via Isernia, poi al parco di piazza Santa Maria Nascente, con le panchine, l’ombra e gli amici con i quali perdersi ancora in chiacchiere e discussioni. E la chiesa, edificio moderno che somiglia a un’enorme capanna, frutto di un progetto bandito dalla Triennale nel 1947. Nel cortile pieno di sole quattro macchine dei carabinieri, sotto il porticato il parroco don Carlo Casati con i parenti. È stato don Carlo a dare l’allarme. Dentro, le pareti di mattoni rossi che si susseguono in un enorme motivo geometrico e le panche di legno scuro. Sul pavimento il corpo di Colò e la pistola. Il suo cuore d’atleta s’è fermato in un istante.

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