Preoccupa il clima di tensione attorno ai giudici del processo Aemilia senza scorta

Nessun provvedimento a tutela dei magistrati dopo che uno dei condannati si è asserragliato in una filiale di Poste Italiane con degli ostaggi e all’avvocato che gestisce i beni confiscati sono stati recapitati degli escrementi

 

BOLOGNA – Dopo la sentenza ‘Aemilia’, un susseguirsi di episodi allarmanti, in un crescendo di tensione. Così viene descritto negli ambienti giudiziari di Bologna e Reggio Emilia il clima attorno ai giudici che il 31 ottobre si sono pronunciati nel più grande processo di ‘ndrangheta mai celebrato al Nord, infliggendo oltre 1.200 anni di carcere complessivi a 118 imputati. Due su tre membri del collegio reggiano, il presidente Francesco Caruso, ora alla guida del tribunale bolognese, e il collega Andrea Rat, non hanno una scorta, mentre il terzo magistrato, Cristina Beretti, ha una tutela per un’altra vicenda. Ma la mancanza di protezione per chi insieme a lei, nei prossimi mesi, dovrà scrivere le motivazioni dell’importante provvedimento, preoccupa molti. Soprattutto dopo gesti come quello di Francesco Amato, condannato a 19 anni, irreperibile per alcuni giorni all’ordine di carcerazione fino a quando non ha deciso di asserragliarsi, il 5 novembre, in un ufficio postale di Reggio Emilia, prendendo ostaggi e arrendendosi solo dopo ore e un’estenuante trattativa. E’ di ieri, invece, l’intimidazione a un altro personaggio chiave di ‘Aemilia’, l’avvocato Rosario Di Legami, che amministra gran parte dei beni confiscati agli ‘ndranghetisti: nel suo ufficio palermitano è stata recapitata una busta con escrementi, con l’anonimo mittente che si è attribuito come indirizzo la via corleonese dove viveva Totò Riina.

 

 

Di Legami si occupa anche di altri processi e entrambi sono episodi da decifrare, ma “in generale, a persone che hanno responsabilità di questo tipo (come i giudici, ndr) va garantita la massima sicurezza”, dice Daniele Borghi, referente di Libera in Emilia-Romagna, che ha seguito dall’inizio il processo, dove l’associazione è parte civile. Ci sono stati “segnali preoccupanti: 1.200 anni di carcere sono tanti, è abbastanza naturale che ci sia tensione”. In effetti il processo, che ha visto tra gli altri la condanna di Vincenzo Iaquinta per reati di armi e del padre Giuseppe, per associazione mafiosa, è stato fin dall’inizio considerato estremamente delicato, per numero di imputati e temi trattati, peraltro in una zona d’Italia non abituata a questo genere di procedimenti. Basti pensare all’allestimento di aule bunker ad hoc, prima in fiera a Bologna per l’udienza preliminare e poi all’interno del palazzo di giustizia reggiano per il lungo dibattimento. Seguito da una camera di consiglio blindata, in questura, dove i giudici sono rimasti isolati per 15 giorni, in condizioni di sicurezza elevata. Poi sono usciti, tornando al loro lavoro. Ma anche se pentiti in aula avevano lasciato intendere come il termine del processo non poteva coincidere con la fine della presenza della ‘ndrangheta in Emilia, nei confronti di due di loro non sono state al momento adottate misure. Il presidente Caruso, contattato in merito, non ha voluto fare dichiarazioni.

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