Il collaboratore di giustizia dichiara di essersi rifiutato di sparare ad un pm
TORINO – Un gesto poco gradito che doveva essere ‘punito’. L’assurda vendetta però non fu mai posta in essere. Un pubblico ministero della Procura di Biella nel 2014 doveva essere “gambizzato” dalla ‘ndrangheta perché durante un interrogatorio aveva alzato la mano come se volesse percuotere un indagato. Il retroscena è contenuto nei verbali di interrogatorio di un nuovo pentito, Cosimo Di Mauro, depositati ieri a Torino al processo d’appello Alto Piemonte. Di Mauro, considerato una figura di spicco dei clan a Biella, racconta che gli venne chiesto di sparare al pm, e che lui rifiutò. L’uomo ha deciso di collaborare con la giustizia dopo essere stato condannato in primo grado a otto anni e otto mesi di reclusione.
La procura generale, dopo avere depositato i verbali dei suoi nuovi interrogatori, ha chiesto di farlo deporre in aula. Alto Piemonte era terminato il 30 giugno 2017 in tribunale con tredici condanne a pene comprese fra i tre e i quindici anni di carcere. Uno dei suoi filoni riguardava l’interessamento della ‘ndrangheta al fenomeno del bagarinaggio del mondo del calcio: uno degli imputati è Rocco Dominello, ex capo ultrà per la Juventus, indicato nelle carte processuali insieme al padre Saverio come esponente della cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. Le dichiarazioni di Di Mauro secondo quanto si è appreso, sono concentrate sulle attività delle cosche nel Biellese.
Il magistrato è Ernesto Napolillo, all’epoca dei fatti sostituto procuratore a Biella, che alla fine del 2014 fu messo sotto scorta. Nel 2016 prese servizio ad Ancona. Di Mauro ha riferito agli inquirenti del capoluogo piemontese che a chiedergli il “favore” fu Giuseppe F., soprannominato Peppone, insieme a un suo amico. “Il pm Napolillo – è a verbale – lo aveva interrogato e gli aveva fatto il gesto di menarlo. Questa cosa Giuseppe non l’ha sopportata e mi ha chiesto se fossi stato disponibile a gambizzare il magistrato.
In cambio mi avrebbe dato i proventi della vendita dell’unico bene che possedevano lui e l’altro, una villetta a Massazza (Biella), salvo trattenersi 50 mila euro per loro”. “Ci fate il favore – dissero – e gambizzate il pm e vi diamo questa villetta. Io risposi che a me insegnano che giudici e carabinieri non si toccano“. Un quarto personaggio presente alla conversazione, però, secondo Di Mauro “si dichiarò disponibile”. Lo scorso settembre ha detto ai pm della procura di Torino che intendeva collaborare “perché sono stufo e voglio cambiare vita”.
Le forze dell’ordine operarono con la massima discrezione possibile. Ma una domenica il giovane magistrato visto alla messa in Duomo insieme al piccolo gruppo di accompagnatori e la notizia, nella città piemontese, si sparse in un baleno. Di Mauro non accettò l’incarico ma le autorità di pubblica sicurezza ‘fiutarono’ ugualmente il pericolo. Nelle sue deposizioni, ricche di dettagli, Di Mauro ha raccontato di essere entrato nel giro quasi di diritto in quanto “genero del capostipite, Antonio Raso”. Fu proclamato “franco e libero”. In sostanza – ha spiegato – “potevo comportarmi come volevo”. I Raso avevano una ditta di demolizioni. “Compresi subito che si smontavano auto rubate. La famiglia inoltre era conosciuta nel Biellese e nel Vercellese anche per la droga e le estorsioni. Ovunque andassimo c’era gente che portava loro rispetto”.
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