ROMA
Trent’anni fa l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela e dell’agente di scorta Domenico Russo, un attentato di mafia che Giorgio Napolitano, per primo, ha voluto ricordare. E lo ha fatto mettendo al centro della sua commemorazione un appello al’unità e alla condivisione di valori
dopo giorni infuocati di polemiche e conflitti politici e istituzionali. Il capo dello Stato ha inviato al prefetto di Palermo, Umberto Postiglione un messaggio nel quale definisce il generale Dalla Chiesa un «eccezionale servitore dello Stato, di comprovata esperienza operativa e investigativa». E aggiunge un passaggio chiave: «Ricordarne il sacrificio contribuisce a consolidare quella mobilitazione di coscienze e di energie e quell’unione d’intenti fra Istituzioni, comunità locali e categorie economiche e sociali, attraverso cui recidere la capacità pervasiva di un fenomeno criminale insidioso e complesso».
Ecco, il presidente punta dritto sul clima che ha acceso tifoserie e strumentalizzazioni sulle intercettazioni di cui è stato oggetto nell’ambito della trattativa Stato-mafia. Divisioni e polemiche sul Colle che in realtà portano ben lontano da quelli che devono essere i veri obiettivi: le inchieste di mafia e fatti di sangue di cui fu vittima anche Dalla Chiesa. Ma non tutto è stato inutile. «La sua uccisione – scrive Napolitano – provocò un unanime moto d’indignazione, cui seguì un più deciso e convergente impegno delle Istituzioni e della società civile, che ha consentito di infliggere colpi sempre più duri alla criminalità organizzata, ai suoi interessi economici ed ai suoi legami internazionali». Insomma, non ogni pagina della storia italina è oscura, non c’è solo una storia di sconfitte, trattative o rese ma anche di battaglie e alcune vittorie. Questo ha ricordato a tutti Napolitano anche quando, lo scorso maggio, all’aula bunker di Palermo ha commemorato Falcone e Borsellino.
L’impegno contro la mafia è quello che promette Mario Monti, sia pure nella sua breve parentesi da premier. Il sacrificio del generale Dalla Chiesa «rappresenta lo stimolo per costruire un futuro di legalità e giustizia. Il governo, oltre ad onorarne la memoria, per parte sua, si impegna a rafforzare, a tutti i livelli, la consapevolezza che il contrasto ad ogni forma di criminalità organizzata costituisce il punto di partenza per un paese più giusto, prospero e democratico». A rappresentare a Palermo il Governo ieri c’era il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri che ha seguito celebrazioni svolte senza tanta partecipazione di cittadini. «Il suo sacrifico non fu inutile» ha detto mentre i cronisti la incalzavano sulle polemiche che ruotano sulla Procura di Palermo e il Colle. «Sono qui per ricordare Dalla Chiesa, di altro non parlo».
Non fu solo la mafia, ha sottolineato ieri il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, a uccidere Dalla Chiesa: «Come in tutti gli omicidi eccellenti, nella strage di via Carini è possibile riconoscere causali complesse». Di Dalla Chiesa – e non solo – ha parlato anche il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, che alla presentazione di un libro sul prefetto ucciso ha detto: «Il caso Dalla Chiesa è la dimostrazione del fatto che i tanti uomini dello Stato uccisi per mano mafiosa hanno pagato per un’idea distorta di Stato, abituato più a convivere che a essere intransigente con i poteri criminali. Al di là dei possibili mandanti esterni e dei moventi convergenti, il punto è che i responsabili morali dell’isolamento di queste persone stavano dentro uno Stato imbelle». Ingroia ha anche risposto ai giornalisti che gli chiedevano ancora delle intercettazioni. Devono essere distrutte? «Aspettiamo la decisione della Corte costituzionale», ha risposto mentre in mattinata aveva parlato di «una eccessiva enfatizzazione mediatica» sulle intercettazuioni al capo dello Stato. «Si tratta – ha detto Ingroia – di intercettazioni che non hanno tra l’altro alcuna rilevanza penale e sulle quali ci si sta esercitando sui possibili risvolti». Un esercizio che non finirà presto.