REGGIO CALABRIA – Il cappio della vergogna. L’ex gip del tribunale di palmi, Giancarlo Giusti, travolto dall’inchiesta giudiziaria “Infinito” e condannato per l stessa a quattro anni di reclusione, con l’accusa di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa, per via di quel suo “interessamento” personale nei confronti degli esponenti di spicco del clan Lampada, ha tentato il suicidio, nel carcere di Opera.
L’ex magistrato, sospeso dallo scorso marzo, dal Csm, all’indomani dle suo arresto, era detenuto nella settore K del enitenziario milanese. In quella stessa cella, spinto dai rimorsi, dalla vergogna di aver “macchiato” la sua toga e dal timore di non ottenere nessuna attenuazione morale per quei suoi comportamenti, troppo attaccati vcon Giulio Lampada, ha mesos in atto il suo tentativo di suicidio, inflando la sua testa in un cappio, ricavato dai lacci delle scarpe che aveva legato all’inferriata della sua prigione. L’intervento, immediato dielle guardie giurate, in servizio di controllo in quel settore del penitenziario, hanno evitato che il suicidio si consumasse. Immediatamente soccorso e portato in infermeria, è stato trasportato all’ospedale San Paolo, dov’è stato ricoverato in rianimazione, in stato di coma farmacologico. Prima di mettere in atto il suo gesto disperato, l’ex togato reggino ha scritto una lettera di scuse ai suoi figli: »Perdonatemi per quello che ho fatto». La missiva, trovata in tempo dalle guardie giurate, è stata l’ultimo grido d’allarme del giudice che ha cercato di giustificare quel suo modo di comportarsi davanti al clan. Giancarlo Giusti, 45 ani, nativo di Cittanova, non ha retto a quel verdetto di condanna e provato psicologicamente per quel quadro accusatorio, costruito dalla Dda di Milano e confermato dal gup distrettuale dell’antimafia meneghina, con quell’infamante e incancellabile accusa di essere sul libro paga del clan reggino, trapiantato in Lombardia. Quel marchio di uomo dello Stato “infedele” che aveva venduto la sua onorabilità professionale, la sua dignità di uomo libero e la sua toga in cambio delle belle donne e della vita agiata nella movida milanese, non riusciva davvero a sopportarlo, al punto che la condanna peggiore per lui non era la galera ma quel suo nome accostato alla ‘ndrangheta, quela stessa potente famiglia Lampada che aiutò nelle aste immobiliari. Quel suo rapporto stretto e privilegiato con i fratelli Giulio e Francesco lampada è un fardello pesante d’accuse, difficile da dimenticare e sopportare. Un raporto fatto di informazioni, confidenze, e dritte su atti giudiziari che i boss del clan pagavano con soggiroini di lusso in hotel milanesi, e notti spericolate con escort dell’Europa dell’Est.