COSENZA – “La Siria e il mio cuore”. E’ questo il titolo del racconto-confessione che Amedeo Ricucci, il giornalista-reporter di Cetraro,
rapito in Siria e liberato dopo diversi giorni di prigionia, ha postato sulla sua pagina Facebook, nonchè sul suo sito www.amedeoricucci.it, per parlare della sua esperienza. Il racconto, più che un pezzo giornalistico classico, somiglia molto di più alla trama di un bel romanzo, uno di quelli che catturano l’attenzione del lettore, uno di quei romanzi dove sono sapientemente miscelati la suspence, il romanticismo, la paura, il tocco di giallo e la voglia di lottare, nonchè quegli immancabili colpi di scena.
Per un giornalista come me – scrive Ricucci – che lavora in tv, tornare a casa senza il “girato” – vale a dire senza le immagini di quello che si è visto, filmato e vissuto – non può che essere un’umiliazione grande. Una perdita enorme. E’ come se quella storia e quella esperienza non esistessero, visto che non possono essere raccontate con il linguaggio che mi è congeniale, che è quello delle immagini. E però, sia in testa che nel cuore, di immagini di questo mio ultimo viaggio in Siria ne ho tante. Belle e meno belle. E ho voglia di fissarle, perché da un lato questo mi rincuora e dall’altro mi restituisce il senso del mio lavoro. Provo a farvele vedere, così come le ho vissute io. Partiamo – continua – dalla scena con cui mi coccolo da quando sono rientrato in Italia. E’ il momento cruciale della nostra liberazione. Noi in macchina, con un incappucciato al volante, kalashnikov e pistola in bella vista, colpo in canna, su una strada di montagna. All’improvviso l’uomo, che non ci hai mai rivolto la parola se non per dirci a un certo punto del viaggio che potevamo levarci la benda sugli occhi, frena e fa retromarcia, fino a posizionarsi di fianco a una macchina parcheggiata sul ciglio della strada. Ne scendono gli amici siriani che erano stati fermati con noi e liberati dopo tre giorni. L’incappucciato ci dice di andare. E il trasbordo è velocissimo, senza parole. Non c’è tempo nemmeno per riabbracciarci, perché ripartiamo di corsa. In silenzio. Uno degli amici – prosegue Amedeo Ricucci nel suo racconto – mi indica però, ripetutamente, il cruscotto. Lo indica e sorride. Apro e trovo un pacchetto di sigarette e un accendino. Un regalo, prezioso. E’ fatta, mi dico. Siamo liberi. Scena numero due. Un carceriere, giovanissimo, si rivolge ad Andrea e gli confessa di vergognarsi a dovermi bendare per portarmi in bagno. Dev’essere un siriano. “E’ un uomo anziano – gli dice – e io gli devo rispetto”. Io sorrido. E penso che non tutto è perso, che continuare a sperare ha un senso. Scena numero tre. Siamo appena stati fermati. E dopo quattro, cinque ore di interrogatori serrati sembra tutto finito. Ci offrono da mangiare. Poi però, all’improvviso, come a tradimento, ci bendano e ci legano, spingendoci bruscamente in un pulmino. Temiamo il peggio. E ci salutiamo come se fosse l’ultima volta. Ad essere più di sorpresi di tutti sono i nostri amici siriani, quelli che ci accompagnano. Anche loro trattati come spie: un’onta che non meritavano. A loro va adesso il mio saluto. A loro e a tutti i siriani che ci hanno aiutato, in questo e negli altri viaggi. Il mio cuore resta con loro. Sul sito c’è anche una foto. Ricucci scrive: la foto è di Maher. L’ha scattata ad Antiochia la sera prima del nostro ingresso in Siria. Abbiamo mangiato siriano ed eravamo felici come bambini, pronti a lavorare. Prima o poi, lo so, torneremo tutti e cinque laggiù. Promesso. E siamo sicuri che Amedeo Ricucci manterrà la sua promessa. Da grande giornalista.