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Giusy e il suo amore per il Sud

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COSENZA – Dichiarazione d’amore. Al Sud. E’ quella che Giusy Staropoli Calafati, affermata scrittrice calabrese,
fa alla sua terra natia, ma anche al Sud, dove dice “perchè al sud di bambini che sognano, ne nascono ancora”. La sua lettera d’amore inziia così: Vivo al quarto piano di un palazzo del sud, da quarant’anni, circa, quasi, con quattro figli e un mare che da allora lo vedo alzato più di quattro dita e non si ferma. E si fa di mareggiate la sua vita, da dar spettacoli all’aperto senza cercare soldi a chi lo guarda. E su di esso se ne fanno di fantasie e scommesse! Vivo al sud, in un paese, che dopo il terzo, pare il quarto mondo per antonomasia, per le cazzatelle che combina e somma alle sventure che gli imbattono per combinazione. E dopo la terza traversa andando verso il mare, che spiaggia occhi di canna alla rinfusa , nella quarta, in una messa ad angolo perfetta, risiede alto,come un gendarme armato, il mio palazzaccio bianco e nero, passato agli annali della storia per il suo starsene a nasca all’aria, in bocca a Stromboli, sul picco dei tramonti, a ogni stagione, che di ore ne governano a dozzine. E se ne vanno al vento , pari e dispare, fin su la solitaria meridiana, d’un’altra casa mia, portata in dote, antica, i petra e tahju, e impaccita per i canali, clic e clac, che gli piovono d’inverno e il caldo che d’estate me la coce in piena fronte, sul corso principale del paese, a mezzo passo dalla chiesa matrice e il campanile con tant’anni addosso, che pare non sentirne nemmanco uno, tanto suona e risuona ogni mattina, e la domenica tintinna un din don dan di lusso, spaccone poco e riservato come quello delle spose tranquille, di maggio e di settembre. E in quarant’anni, circa, quasi, non ho mai chiesto al mare, un sol piacere che non potesse fare, e nemmanco la cortesia, da paesana, di rallentare la sua rema, mettendogli a tacere, il tran tran dell’onda sua battente. E rumoreggia H24, senza sosta, alzandosi sul collo della spuma, con zattere in andata e altre in ritorno, zeppe di pensieri , che l’acqua sua frusciante, prende e mantiene a memoria nel suo abisso, a notte fonda. E a ogni cambio di mezza giornata, guardo con gusto, oltre i due quadri di vetro che dalla mia cucina mi prospettano, un niente assurdo che s’accoppia da ogni lato all’orizzonte e a un mare che di mediterraneo ha colori e suoni riconducibili ai miti e alle leggende, contenute da secoli in riserve memorabili che appaiano impossibili da consumarsi prima o poi. E dall’angolo di un terrazzino, messo di fronte al sole e di spalle al mare, che tutto quieta ma il remigare suo non ferma mai, mi gusto, starsene supina e pensosa, una naiade, ferma lì, a fantasticar con me, alla fontana che bevvi da bambina, ancora cretta e più biondina, con una peluria che me la sfottevano a scuola e in giro in giro, i miei compagni delle elementari, che in un pensiero mio veloce, raggiungo ancora in pieno. E sul balcone, fiorito di gerani, si posa, scampanellando, il tintinnio del sole, che spia le mosse dei passeri e dei bambini, rimasti, pochi e niente, a chiacchierare. E dal quarto piano, del mio palazzaccio bianco e nero, guardando il mare che non finisce mai, vivo al sud e sembra l’eden…., e il belvedere di casa mia, porta affisso un cartello, intorno al collo: “proprietà privata”, forse. E mi sazio di quell’aria che non finisce. Che d’inverno cresce e scrosce e d’estate , scirocca e s’assopisce. E a scendere le scale, che l’ascensore è un film che non si gira che pare che non si trovano registi, rasento le strade, le vie annomate a questo e a quello, fuori e dentro la quarta traversa, quattro metri in avanti e altri quattro indietro, e percorro a scendere e a salire rampe di gradini, avanti-casa, che nemmanco la voce sembrano avere più. E le vedo invecchiate, stanche, quelle stradine di pietra che percorrevo , un tempo, a sette anni, a piedi, per andare a scuola, infiocchettata con il grembiulino blu e il colletto bianco, e che oggi percorro in macchina, botta di lampo, (mancu nu passu a scaza si faci chjù) per accompagnare i miei figli che di anni ne hanno a varietà: dodici, nove, sei, tre; che pare di giocare all’enalotto. E son le strade cotte e mangiate, da chicchessia, in cent’anni e più di questi, che portano dal fornaio fino al fruttivendolo, dopo l’ufficio postale, a lato della banca che non c’è più, fino davanti la casa del comune, dove più d’uno si è mangiato osso e mastr’osso di cani e cristiani. E tutto sa di tutto e anche di niente, e io ci vivo… Ma in quel palazzaccio bianco e nero, al quarto piano, nella quarta traversa, a quarant’anni, circa, quasi, con quattro figli, fremo e tremo, ché il tempo passato non torna e quello che c’è è già finito… La casa della scuola, per esempio, (che dove c’è ignoranza Dio ci manca) intestata a un sommo uomo, colto di che visse a che ci è morto e pure dopo, che prima nel giardino produceva, al naturale, altro che bio, margheritine per la camomilla, tali quali a quelle di mia nonna, che lavava con gli impacchi tutti i figli, ora puzza di fumo per quella malanova di sigarette che si fuma come una dannata, senza aspettare di diventare grande. E brucia tappe e toppe come vampe di fuoco che nemmanco il Padreterno, a pregarlo, le può tornare, un giorno. Si incanna dal sole al tramonto ed è allucinante il suo bisbiglio, incredibile la sua cera, particolarmente sfusa e sparigliata la stabilità su cui si puntella quando s’accorge di tremare e prende coscienza che se cade, da terra non s’alza più com’era. Povera ciòta! Che se inciampa, (e a me pare che si è già fottuta per più della metà), si strafotte pure il dialetto ( che ancora – per poco – le riesce bene), e la sola possibilità che ha di insegnare tanto ai giovanotti perché questi ne sappiano di più da grandi. Ché non sempre è carnevale…, e le chiacchiere van bene! Peccato però che quel che sa, in faccia al mondo, non lo ricorda. E un paese che non ha memoria e si mangia per rabbia, a pranzo e a cena, la sua storia, nemmeno morto trova pace. Nemmeno morto…! Eppure, io ci vivo, qui, al sud. Ci vivo con la nomina, forse, di scimunita, che a quarant’anni, con quattro figli, ha ancora mille sogni. E ci resto, perché mi sento d’essere in dovere, verso mia madre e nei confronti di mio padre e sento d’essere ancora in tempo, e lo sono, di cedere al paese, il mio paese, un pezzo di cuore, del mio cuore che batte, per riportarlo in se stesso, in vita, e passarlo sanizzo , battezzato e santo, in eredità ai miei figli. Con una meridiana felice della sua vecchiaia che segna le ore da mezzogiorno a mezzanotte, un mercato e una bottega in più, che non c’erano prima, una scuola con margheritine per la camomilla in ogni classe, tanti giovanottini e signorinelle seduti nei banchi volenterosi di sapere, infinite pagine di cultura con le mille essenze del tempo e fumi di scienza che escono dalle teste, in tante troppe teste, perché domani questo paese sia primo, tra i più belli del mondo. E allora, io ci sarò ancora, spero, a vivere al quarto piano di un palazzaccio bianco e nero, con quattro figli fatti uomini, a più di quarant’anni…, confessando ad altri che vivo al sud e tanto che l’amo, non potrei lasciarlo mai. Già, mai.
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31 Ottobre 2015Scritto da
Redazione
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7 anni fail
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