COSENZA – Venti ore. D’Attesa. E’ stato questo il tempo, perso, da Francesca, una 24enne di Cosenza, giunta al pronto soccorso
dell’Annunziata, con forti dolori al ventre, sistemata in una carrozzella nel corridoio del nosocomio cittadino, in attesa di essere visitata. Venti lunghissime ore, nel corso delle quali, Francesca non è stata trattata da paziente, ma come un numero. Venti lunghissime ore, durante le quali, la 24enne ha avuto nei suoi familiari, le uniche persone di sostegno che le hanno dato la forza di sopportare il dolore, la capacità di stringere i denti, stringendole affettuosamente le mani. Venti lunghe ore, interrotte, solo dall’arrivo di un’infermiera che, facendo spallucce, ha informato la ragazza che se voleva essere curata ed assistita seriamente doveva andare in clinica. La storia di Francesca è l’ennesimo triste e squallido capitolo dei disagi organizzativi e gestionali, in cui versa il più grande ospedale della Calabria. Il calvario di Francesca, inizia intorno alle 16:30. La ragazza lamenta forti dolori al ventre, così forti che le fanno mancare il fiato in gola, così violenti che le fanno scendere i sudori dalla fronte, così lancinanti che non le permettono nemmeno di stare seduta o coricata. L’arrivo al pronto soccorso è immediato. La saletta d’attesa è, come al solito, piena come la hall di un albergo. Gente in piedi, pazienti coricati sui lettini, donne e uomini stipati come sardine. Francesca non riesce più a sopportare il dolore, sua madre chiede ai tanti infermieri che passano nel corridoio, di dare un antidolorifico a sua figlia. “Signora aspetti, il medico è impegnato, appena sarà possibile, sua figlia verrà visitata, abbia un pò di pazienza”. E’ questa la frase che la mamma della 24enne s’è sentita ripetere due o tre volte. Finalmente la porta dell’area chirurgica si apre. Dentro c’è un solo medico. Francesca entra e viene visitata. Il medico non le fa nessuna diagnosi. Le prescrive una serie di accertamenti e le consiglia di accomodarsi in una delle salette, vicino all’area chirurgica. La stanza è piccola. L’odore è nauseabondo, l’aria è irrespirabile. Il bagno è senza finestra, la porta si chiude appena, e dal water arrivano folate pestilenziali. Insieme a Francesca sono sistemati altri due pazienti: uno bisognoso di urgenti trasfusioni di sangue, l’altro senza una gamba. La saletta non ha nemmeno una porta. I tre sono dentro e osservano tutto quello che succede a pochi metri da loro. Passa il tempo ma nessuno s’interessa di Francesca. Le ore volano sull’orologio alla velocità della luce, ma nessuno dà notizia alla 24enne circa i suoi dolori. Finalmente un medico entra nella saletta e pronuncia il cognome di Francesca. Solo le 22:30. Sono passate sei ore. La saletta dove Francesca è stata fatta accomodare, si riempie sempre di più di persone bisognose di cure. L’aria si fa sempre più irrespirabile, così come i dolori aumentano a dismisura. La visita delle 22:30, dura più o meno un paio di minuti. Il medico dice che finisce il giro delle visite e torna. Non si vedrà più. I lamenti nella stanza sono tanti, così come l’indignazione per un’ospedale che è da terzo o quarto mondo. Alle 8 del mattino, i medici si danno il cambio. La mamma di Francesca sbircia fuori dalla porta in cerca di un medico. Ne intercetta uno, a cui spiega la situazione. La risposta è: “signora non ho la cartella di sua figlia, pazienti un pò, sarò presto da lei”. Sì, pazienti. La pazienza è finita. Verso le 10, un medico entra nella saletta. Parla con Francesca, le tocca l’addome, le misura la pressione, le sente il battito cardiaco. Terminata la visita, il medico va via, tra l’incredulità generale. Francesca, nonostante il dolore, ha un sussulto, uno scatto di rabbia, un moto d’indignazione. Chiede di sapere cos’ha, chiede di sapere cos’è emerso dalle analisi e dagli altri accertamenti. Come risposta, il medico allarga le braccia, le volta le spalle ed esce dalla stanza. Un’ora e mezza dopo, un altro medico entra nella stanza e s’avvicina alla 24enne. “E’ lei che ha effettuato queste analisi?” La 24enne, tra l’ironia e la rabbia, dice al medico: “Certo, almeno sulla cartella c’è scritto il mio nome, se poi la mia cartella è finita nel fascicolo di qualcun’altro, ovviamente la diretta interessata non sono io”. Il medico incassa la risposta. Con lo sguardo basso e gli occhi fissi sulla cartella medica legge i risultati e stila il suo referto. “Signorina, lei ha una colica colecistica. Purtroppo se vuole risolvere il suo problema, deve rivolgersi in una struttura privata”. Nel frattempo scatta la ventesima ora. la 24enne ha un attacco di rabbia, quella tensione accumulata in venti ore d’attesa si scarica con un pianto dirotto e singhiozzante. Francesca e sua madre lasciano il pronto soccorso per cercare assistenza altrove. L’avventura è finita, venti ore all’inferno sono stati troppi.