Detenuto calabrese suicida in carcere, condannato ministero della Giustizia

La Corte di Cassazione riconosce ai familiari il diritto ad essere risarciti

 

VIBO VALENTIA – Il ministero della Giustizia è stato condannato in sede civile a risarcire i familiari di Salvatore Giofrè, di San Gregorio d’Ippona, suicidatosi all’età di 40 anni nel carcere di Vibo, il 28 giugno del 2009, dopo averne manifestato le proprie intenzioni, appena 24 ore prima, ma senza che qualcuno dell’amministrazione penitenziaria adottasse gli opportuni accorgimenti per scongiurare quell’evento che il detenuto mise in atto impiccandosi con le lenzuola. A stabilirlo è stata la terza sezione civile della Cassazione che ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati Giuseppe Di Renzo, Nicola D’Agostino e Nazzareno Rubino, per conto del congiunti della vittima che avevano denunciato il ministero per omessa vigilanza. I giudici hanno cassato la sentenza, con rinvio alla Corte d’Appello di Catanzaro, che quindi dovrà nuovamente pronunciarsi nel merito, ma, in relazione alle statuizioni civili, ha riconosciuto le responsabilità da parte del Ministero.

 

In primo grado, il Tribunale di Vibo accolse la domanda dei familiari di Giofré – ritenuto vicino al clan di ‘ndrangheta Fiarè-Razionale-Gasparro e che fu arrestato per violenza sessuale ai danni di un’anziana – e inflisse una condanna per omessa vigilanza al dicastero della Giustizia chiamato a risarcire i danni per un totale di 195mila euro in favore di Domenica Lo Muto, 179mila euro a testa nei confronti di altri due eredi di Salvatore Giofrè, più altre 163mila euro per ognuno dei tre figli.  Era il 30 ottobre del 2013. Il verdetto venne però ribaltato in Appello cui aveva fatto ricorso il Ministero ritenendo che il suicidio non fosse né prevedibile né prevenibile, tanto che il nesso cautelare tra il comportamento dell’amministrazione penitenziaria e la morte di Giofrè doveva ritenersi interrotto dall’eccezionalità dell’evento. La Corte aveva quindi dato conto del fatto che, nonostante non si evidenziassero ragioni di rischio, il detenuto era stato sottoposto al regime di “grande sorveglianza” (guardato a vista ogni 20 minuti), che non potesse ravvisarsi la fonte dell’obbligo giuridico in capo alla struttura carceraria di impedire eventi consapevoli e volontari, che il colloquio terapeutico era stato svolto senza esiti apprezzabili.

 

 

Contro quella sentenza i familiari del detenuto presentarono ricorso in Cassazione che i giudici hanno giudicato fondato. Intanto hanno rilevato che Giofrè non fu sottoposto ad alcuna osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione e ciò in quanto, al momento dell’ingresso in carcere, non c’erano né l’educatore né lo psicologo; questa “pur decisiva circostanza non risulta oggetto di alcuna valutazione dei giudici dell’Appello”. Viene poi rilevato che “è incontestabile, sul piano causale, che, ove Giofrè fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro chiesto dal pubblico ministero, i suoi intenti suicidi sarebbero stati impediti, o comunque resi di molto più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti”.

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