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Viaggio nella cattedrale degli “invisibili”
COSENZA – L’altro volto della città. Quando calano le luci e la notte s’impossessa delle strade, vagando in silenzio per le vie della città,
mentre la “normalità” va a letto, a trovar riposo e ristoro nelle case riscaldate dai termosifoni e sotto le coperte, c’è un’altra fetta di città che vive la notte, non per piacere o per passione, ma per condizione, a volte imposta dalla vita, a volte dettata da una scelta. Ci sono zone di Cosenza che diventano la casa d’accoglienza di sbandati, dimenticati, demoni ed invisibili, in cerca di quella “normalità” che la luce del giorno gli nega agli occhi degli altri. Il nostro viaggio, in questa discesa agli inferi, inizia alla stazione ferroviaria di Vaglio Lise, dove tra i sottopassi e le colonne dei binari trovano riparo gli invisibili, quelli che la città, a volte teme, a volte detesta. Sotto un paio di cartoni e stracci di tende, troviamo Maurizio. E’ disteso sul suo giaciglio di fortuna, con una sigaretta accesa tra le dita, una scatola di fagioli aperta alla meno peggio, un pezzo di pane raffermo, duro come la pietra. Lui è un bresciano, in fuga da se stesso, in fuga dai suoi fallimenti professionali, causati dalla leggerezza di chi, sulle pelle di operai e dirigenti, s’è “divorato” l’azienda tra tavoli verdi e donnine allegre. La sua carta d’identità racconta che ha 46 anni, ma i segni della fame, del disagio e della stanchezza, gliene danno molti ma molti di più. Sui suoi polsi, segnati da tagli di forbici e cicatrici di lamette, compaiono due nomi (Matyas e Fabrizio, ndr) sono i suoi figli che – racconta – non vede da 6 anni, da quando cioè, dopo aver perso il lavoro, come dirigente di un’azienda del Biellese, sotterrata dai debiti e divorata dalle banche per via di quella gestione allegra del titolare che la dirigeva, la moglie l’ha cacciato di casa, scaraventandogli dalla finestra di quella casa in pieno centro, tutte le sue cose. Vestiti, borse, giacche, cravatte, scarpe, borsoni e tutti gli altri oggetti personali e preziosi. “Per un certo periodo di tempo – racconta – sono andato avanti con il sostegno di alcuni amici, poi, però, anche loro sono scomparsi, m’hanno allontanato, m’hanno sbattuto più di una volta la porta in faccia. E allora ho iniziato a viaggiare. Per pagarmi i biglietti ho venduto tutto quello che avevo, perfino la fede. L’unica fede che non ho dato via è quella nel Signore. Mi faccio forza pregando e leggendo libri. Due anni e mezzo fa, sono arrivato a Cosenza, me ne aveva parlato un mio amico, descrivendomela come una città accogliente, calorosa, affascinante. Tutto vero. Qui ho trovato subito l’accoglienza di un prete che credo sia un Santo, don Antonio Abruzzini (parroco di San Pietro e Paolo che dirige anche la Stella Cometa di via Popilia, ndr), lui m’ha aiutato. Ma il vero aiuto me l’hanno dato e me lo danno ogni minuto che passa i miei fratelli e le mie sorelle povere. Sono loro che m’hanno insegnato ad apprezzare, nonostante tutto la vita”. Maurizio ci saluta, chiedendoci una sigaretta, anzi facciamo due. “Tra un po’ arriverà qualcuno e gliel’offrirò”. Prima di andar via, il 46enne mi scrive su un biglietto un pensiero. E’ di Banana Yoshimoto, scrittrice giapponese. “E’ strana la notte: per quelli che si addormentano subito dura solo un attimo, mentre per chi la passa completamente in bianco, diventa così lunga che è come vivere una vita supplementare e sembra quasi un privilegio…”. Già un privilegio, dice Maurizio, il privilegio di aver conosciuto “angeli all’inferno”. Il viaggio nella “cattedrale” del “rifugio” dove la disperazione incontra il disagio e la sofferenza si dà la mano con la solidarietà, continua. Ci sono tante altre storie da raccontare. Uomini e donne, provenienti da realtà differenti, con alle spalle percorsi di vita e scelte personali difficili che sono accomunate da un’unica regola: aiutarsi per sopravvivere. Lo dobbiamo fare – dicono in coro – per combattere l’indifferenza della gente, la più grande forma di disumanità esitente al mondo.
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