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Il fango “cancella” l’antica Sybaris

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Il fango “cancella” l’antica Sybaris

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COSENZA – Il fango “s’inghiotte” la storia. Quella antica. Il maltempo che ha imperversato, come un tiranno sulla Calabria, ha lasciato segni

indelebili del suo passaggio e della sua crudeltà. Segni che nessuno, nemmeno il più sosfisticato tra i restauratori riuscirebbe, nonostante il massimo impegno, a cancellare. Lo scenario apocalittico che sta facendo il giro del monmdo è quello del Parco Arecheologico di Sibari, resi irriconoscibili dal fango, violentato dal maltempo e destinato, senza interventi appropriati, ad essere “cancellato” per sempre dalla mappa dei beni artistici, storici e architettonici della Calabria. La fotografia del “massacro” alla cultura antica della Magna Grecia, è raccontata anche dal collega Giuseppe Baldessarro, sulle pagine di Repubblica.it. I mosaici non ci sono più. Li ha tutti sepolti il fango trascinato dal Crati. L’acqua ha invaso ogni spazio, si è infilata in ogni buco, ha scalato ogni mattone. Il fiume ha rotto gli argini ed è piombato sull’intero parco come una furia. La piena ha sommerso la necropoli, il teatro, i cortili, i pozzi, le terme e le ville romane. Dove c’erano le testimonianze di secoli di storia, sabato 19 affioravano soltanto pochi mozziconi di colonne e qualche muro. Il Parco archeologico di Sibari è stato devastato in una notte. Cinque ettari di scavi (l’intero parco è di 12 ettari) sono stati inghiottiti da un’onda che ha provocato danni incalcolabili, impossibili da quantificare e forse anche irrimediabili. È sparita Sybaris, antica colonia degli achei, realizzata nel 720 a. C. e distrutta nel 510 a. C. dai crotoniani. È scomparsa Thurii, fondata nel 443 a. C. dai sibariti superstiti che avevano ricostruito la loro antica città. E infine, non c’è più la polis romana di Copia, edificata nel 194 a. C., sullo stesso sito dove erano state alzate le statue di Sybaris e Thurii. Il fiume è riuscito nell’impresa in cui non erano stati capaci gli eserciti. Ha devastato tre città in un colpo solo. C’è riuscito il Crati, ma l’uomo ha fatto la sua parte. I pompieri massacrati da turni di lavoro di 24 ore hanno quasi finito di tirar via l’acqua. E mentre i motori delle pompe continuano a ronzare coprendo le voci, indicano un punto in direzione della foce. In quel punto è venuto giù l’argine. Il fiume si è ingrossato per due giorni di pioggia imponente, è vero. Ma è vero anche che più a monte i nuovi agrumeti hanno formato una barriera che non consente il deflusso delle acque. Com’è altrettanto innegabile che quest’estate nessuno ha fatto manutenzione sulle sponde. A una settimana dall’esondazione le pompe idrovore dei vigili del fuoco e degli uomini del consorzio di bonifica hanno fatto il loro lavoro. Ma non è finita. I primi danni sono già visibili, alcune creste dei muri sono state spazzate via. Ora, però, il vero problema è quell’impasto micidiale di terra ed erba, di limo e arbusti, che se si indurisse diventerebbe fatale per intonaci e mosaici. Una situazione difficile da affrontare e su cui i tecnici e i responsabili della Soprintendenza ai Beni archeologici della Calabria si stanno interrogando. Dovranno evitare che il fango si asciughi bruscamente e diventi crosta ingestibile, difficile da togliere. Servono professionalità specializzate e risorse, perché l’affitto delle pompe per aspirare il fango costa, e tanto. Per questo la Soprintendenza e il Sindaco di Cassano allo Jonio, Giovanni Papasso, stanno ipotizzando di utilizzare le idrovore per mantenere un filo d’acqua, quindi, di tenere umido il fango. Una scelta temporanea, ma necessaria. Il sindaco Papasso è disperato: «È uno spettacolo triste. Ed è innegabile la solitudine in cui ci hanno lasciato. Ho chiesto aiuto a tutti, ma qua non si è visto nessuno. È una vergogna». Racconta una tragedia annunciata: «Già nel 2008 il fiume aveva rotto gli argini, l’acqua non era arrivata all’area archeologica, ma c’era mancato poco. La Regione aveva stanziato quattro milioni di euro per la messa in sicurezza e ad attuare il piano doveva essere la provincia di Cosenza. Poi Catanzaro aveva avocato a sé l’iter e non si è più saputo nulla di quelle risorse». Nei giorni successivi all’alluvione l’unica mobilitazione partita è stata quella di studiosi, accademici, intellettuali, che hanno lanciato dalle colonne del Quotidiano della Calabria l’appello “Salviamo Sibari” per richiamare l’attenzione sul sito in pericolo. Le adesioni sono state migliaia da tutto il mondo, ma servono interventi concreti. Papasso si è rivolto al governo attraverso i ministeri competenti, alla Regione ed ha scritto anche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, chiedendogli di adoperarsi per risolvere la situazione di emergenza. Il telefono del sindaco squilla in continuazione: «Mi chiamano in tanti. Sono volontari, universitari, gruppi e associazioni. È bello quello che sta avvenendo. Ma qua gli angeli del fango non bastano. Qui ci vuole un piano d’intervento preciso, mezzi e specialisti».

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