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Marcano Pirlo, spunta Quaglierella: “Rimontare così una gioia immensa”
Qual è il momento in cui la Juventus capisce di essere tornata nel calcio che conta dopo mille giorni di purgatorio? Trentaduesimo. Primo tempo. La palla finisce un’altra volta nei piedi di un bambino di vent’anni che viene dal Brasile. Si chiama Oscar dos Santos Emboada Junior e per portarlo a Londra Roman Abramovich ha versato 31 milioni di sterline all’Internacional di Porto Alegre. Prima di fare il bonifico ha chiamato Roberto Di Matteo: li vale? «Li vale». Sicuro, mi sembra gracile? «Questo ragazzo è il futuro. Ha vinto i Mondiali Under 20 da solo». Nessuno vince mai da solo. Ma Abramovich ha pagato. Poi a Stamford Bridge sono arrivati i campioni d’Italia. E con loro tremila e duecento tifosi in estasi. La notte della rinascita. «Siamo tornati». Esisti solo se sei in Champions. Musica. La Coppa che sfila in campo portata dai militari, Conte che si va a sedere in tribuna d’onore, i bianconeri che si abbracciano in cerchio nel solito rito propiziatorio.
Il radiocronista della BBC dice: «Il punto è semplice, per fermare la Juve si deve fermare Pirlo». E’ lui l’incubo. L’uomo del cucchiaio che ha spedito l’Inghilterra a casa agli Europei. Era il 25 di giugno. Ridimensionato un intero Paese. Un’immagine che è rimasta impressa negli occhi di Di Matteo. «Lo marco a uomo». Prevedibile. «Scelgo Oscar». Meno prevedibile. Il bambino brasiliano gli si appiccica addosso come una seconda pelle. Non lo lascia respirare. E il regista bresciano non è evidentemente al top della forma. «Gioca se riesci». Pirlo non ci riesce. Oscar sì. Fa un gol quando la Juve è in dieci (fuori Vidal, l’altro uomo chiave di questa storia) ma è due minuti dopo che spiega al pianeta come è fatto. Spalle alla porta, salta Bonucci con un colpo di tacco, si gira con una rapidità da fumetto e prima che Pirlo gli scivoli tra le gambe si inventa un interno destro delpieresco. Parabola che si infila nel sette. Buffon non ci arriva e sembra attraversato da una vampata d’odio. E’ arrivato un altro fenomeno.
Comunque l’Europa della Juve comincia esattamente lì. Poteva affogare. Oppure ribellarsi. Si è ribellata. Aggrappandosi a un altro eroe del nuovo mondo: Arturo Vidal, un genio cileno che invece di farsi seppellire da una storia famigliare complicata ha preso in mano il centrocampo della sua vita. E’ la sua prima partita in Champions e la comincia come se fosse pervaso da un ottuso senso di torpore. Però cresce, comanda, finché David Luiz gli molla una randellata sulla caviglia destra. Esce, lo fasciano e la Juve in dieci va sotto. Zoppica, assiste al 2 a 0 e decide che così non va. Soffre, ma corre, perché in fondo non gli sembra di avere altro da perdere se non i passi spesi per arrivare fino all’area di rigore. E’ lì che lo serve Marchisio. Due tocchi di destro per saltare Lampard e diagonale rasoterra che si infila nell’angolo. Col sinistro. Grandioso.
Niente Pirlo che in questa notte si muove con una strana rigidità da marionetta. Niente Lampard. Oscar e Vidal. E’ la vita che va avanti. Senza dimenticarsi di guardare indietro. Carrera toglie Giovinco e punta secco su uomo che sembrava non esserci più: Fabio Quagliarella. «E’ una caratteristica della mia carriera quella di essere messo sempre in discussione». La partita è al tramonto, Oscar è uscito infortunato in mezzo a un uragano di applausi, Vidal è ormai comprensibilmente un uomo senza energie che si lascia condurre dalla sorte, Quagliarella no. Assist di Marchisio, gol del napoletano, che poco dopo prende anche una traversa. «Rispetto sempre le scelte dell’allenatore. So io quello che ho sofferto dopo l’infortunio. E so quanto lavoro e quanto valgo. Ribaltare uno 0-2 qui a Londra è una gioia immensa». Inchino, arrivederci. Una notte da Oscar per tutti, no? Il bambino brasiliano scivola fuori da Stamford Bridge mentre il suo viso, riflesso nelle vetrate dello stadio, tradisce un sorriso compiaciuto.
LaStampa.it
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